mercoledì 31 agosto 2011

Quale futuro per gli studi classici. Il dibattito con Crema


Ringrazio il Professor Crema e ilsussidiario.net per l’opportunità che mi dà di approfondire una delle tante questioni dibattute all’interno della scuola. È un onore per me - che sono alle prime armi - poter dialogare attraverso questo giornale con accademici di tale portata. D’altronde, come diceva Epicuro, non bisogna aspettare la vecchiaia per fare filosofia e interrogarsi sulla realtà.
Nel suo articolo, il Professor Crema mi citava come esponente di un filone di pensiero - al quale non immaginavo nemmeno di appartenere - secondo cui io accuserei “altri di non destinare sufficienti risorse alla scuola o di non riconoscerle quel prestigio che ancora la scorsa generazione riconosceva agli insegnanti” e che agirei “ come se fosse solo responsabilità di ‘altri’ ”, non dei professori, la situazione in cui ci troviamo a dover insegnare. Invece, i professori, secondo Crema, non “seguono queste piste di riflessione”, in quanto hanno “un alibi per non affrontare l’aspetto del problema in cui il contributo degli insegnanti è indispensabile”. E, sempre Crema, metteva a capo dell’opposta corrente di pensiero il Professor Teruzzi che aveva pubblicato, sempre su queste colonne, un articolo sulla massificazione dei licei e sulla diminuzione degli iscritti nei tecnici e professionali, di cui l’Italia avrebbe più bisogno.
Personalmente non mi riconosco nel suddetto modo di pensare. Anzi. Il mio articolo, nel quale si lamentava sì un’assenza di risorse, ma anche di comportamenti corretti, finiva con un meno male che ci sono gli insegnanti che, nonostante tutto, affrontano i problemi della scuola.
Per quanto riguarda, invece, il “perché essere rigidi con gli studenti quando poi, in realtà, la vita li porterà, nella grande maggioranza dei casi, a compiti che con l’alta cultura non hanno molto a che fare?” e sulla “proposta, anche di vita, che la scuola fa alle giovani generazioni e le condizioni effettive in cui essi saranno chiamati a vivere” ci sarebbe molto da dire.
Da sempre il dibattito sulla scuola è incentrato sullo scopo dell’istruzione, se questa debba essere di preparazione alla vita o al lavoro. Un po’ come la concezione dell’arte che, a periodi alterni, è specchio del verum o intrattenimento dilettevole (per non parlare di quando è stata definita come la parte visibile dell’invisibile). Bene, io credo che otium e negotium non debbano essere in contrasto fra di loro, ma debbano convivere in tutte le persone.

 
A tal proposito mi ha colpito molto quell’articolo di Camon sulla Mastrocola in cui parlava del suo bravissimo piastrellista che però viveva completamente avulso dalla realtà: sapeva fare bene il suo mestiere, ma ignorava guerre, trame di film, autori della letteratura, riforme fiscali e quant’altro. A un certo punto Camon s’interroga se costui conduca una vita qualitativamente interessante e conclude dicendo che “lo studio sta al vivente come la medicina al malato: se dessimo ascolto ai bambini che non le vogliono ingoiare non ci sarebbe più nessuno”. Idem per la scuola.
Una volta, infatti - come su queste colonne spiegava la stessa Mastrocola - “si credeva che i giovani, sapendo la Divina Commedia, sarebbero stati dei ragionieri migliori! Migliori come uomini, e quindi di certo anche come ragionieri”. L’humanitas e il quid animo satis accomunano l’operaio e il filosofo da sempre, perché la scuola ha insegnato loro un metodo, uno stile di vita prima che un mestiere.
Ma ancora più persuasivo, a tal proposito, è il libro Non per profitto della filosofa americana Martha Nussbaum, nel quale la scrittrice spiega che lo studio non deve per forza avere un secondo fine, un guadagno economico (dopo la scuola si avrà tutto il tempo di ragionare in questi termini): subire “il fascino di vedere il modo con gli occhi degli altri” è alla base della democrazia.
Per concludere, non credo che abolire i licei sia l’unico modo per costringere i ragazzi a iscriversi ai tecnici; i cultori delle scuole professionali dovrebbero trovare degli appigli più allettanti per condurre la maggior parte dei ragazzi nelle loro scuole. Di sicuro sarebbe auspicabile che tutte le scuole fossero di serie A, ma, per riuscire in questo, non resta che ritornare alla scuola seria di una volta.

mercoledì 24 agosto 2011

L’alba dei nuovi docenti: l’albo dei giovani non precari


Abbiamo meno di trent’anni, ci siamo laureati a pieni voti e abbiamo solo un desiderio:
insegnare agli adolescenti di oggi ciò che di bello abbiamo imparato e studiato con amore e dedizione.
Non siamo in graduatoria perché non esiste più la possibilità di abilitarsi.
Non siamo mai stati precari perché non c’è stata data alcuna possibilità di esserlo. E per fortuna.
Non siamo iscritti ai sindacati perché ci hanno voltato le spalle, occupati dai problemi dei loro iscritti più grandi.
Alcuni ci chiamano “insegnanti invisibili”. Invece siamo persone in carne ed ossa che chiedono solo una cosa: insegnare.
Siamo realisti: non ci interessa il “posto fisso” che non c’è e che nella scuola non c’è mai stato.
Chiediamo solo di dimostrare a tutti le nostre capacità e le nostre competenze, ma soprattutto di non disperdere i nostri talenti.
Se si parla della scuola, che è il futuro della società, non si può pensare solo ai prof. di quaranta-cinquanta anni. Il futuro della scuola siamo noi!
Per questo il TFA che partirà è un duro colpo ai nostri sogni in quanto non assicura un canale preferenziale alla nostra età e alle nostre fresche e approfondite conoscenze nelle materie che desideriamo insegnare.
La Gelmini ha sempre detto che vuole assorbire i precari e non farne più. Siamo d’accordo, ma in realtà – con la chiusura di concorsi e SSIS – ha già fatto una coda lunga tre anni!

martedì 16 agosto 2011

TFA: tutti i numeri della nuova abilitazione all'insegnamento

Ieri, in pieno ferragsto, sono stati pubblicati i posti disponibili.
Sono solo 17,000 in tutta Italia e comprendono aspiranti insegnanti dalle materne alle superiori, in tutte le classi di concorso. Se si pensa che i non abilitati ammontano a circa 300.000 unità si capisce come 17.000 sia un numero infinitamente più piccolo; eppure è il frutto di un aumento del 40% rispetto al fabbisogno scolastico nazionale per sopperire alle mancanze di insegnanti delle scuole paritarie.
 
Entro il 5 ottobre le Università dovranno organizzare la partenza del TFA che, secondo l'associazione DIESSE (quella che si è mossa per aumentare i posti), potrebbe slittare anche all'anno prossimo.

Staremo a vedere...

Ante gradus. Quando la certezza diventa creativa. Gli affreschi del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala a Siena

di Olga Sanese pubblicato su Il Sussidiario.net dell'11/8/2011


Mariella Carlotti, insegnante di storia dell’arte, è diventata ormai una “certezza” per le mostre del Meeting di Rimini. Dopo il successo del ciclo sul lavoro scolpito alla base del Campanile di Giotto, quest’anno è la curatrice, insieme a Marco Barbone, di “Ante gradus – Gli affreschi del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala a Siena”. Il sottotitolo “Quando la certezza diventa creativa” è un richiamo diretto al tema dell’edizione 2011 del Meeting: “L’esistenza diventa un’immensa certezza”.


Professoressa Carlotti, da dove nasce l'idea della mostra di quest'anno?
La mostra di quest’anno vuole brevemente disegnare la fisionomia di una delle più significative opere di carità della storia europea: l’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena. L'opera nacque ante gradus ecclesiae, davanti alla scala della chiesa, collocazione geografica e ideale: dalla Chiesa viene generato questo fiume di carità che attraversa tutta la vita di Siena.
E’ significativo che abbia sviluppato il tema della carità proprio in questo 2011 che è l'Anno europeo del volontariato…
Infatti l’ospedale nacque come xenodochium, come luogo di accoglienza dei pellegrini, che arrivavano a Siena da tutta Europa, percorrendo la Francigena; poi diventò hospitale per i poveri e malati, asilo per i gettatelli, ricovero per i vecchi. Le donazioni e i lasciti ne ingrossarono le proprietà immobiliari e agricole: l'Ospedale offrì mensa e cibo ai poveri, divenne azienda agricola e banca, assicurando prestiti ai privati, ma anche alla Repubblica di Siena, salvandola più volte dalla bancarotta. Anche la struttura architettonica crebbe, mai progettata, inglobando nel tempo, case e strade, una città nella città. Tra le sue mura, uomini e donne si consacrarono a Dio, nel servizio dei poveri: erano gli oblati del Santa Maria, ai quali si aggiunsero tanti senesi – peccatori e grandi santi come Caterina o Bernardino - che sostennero l’opera, regalando ad essa un po’ delle loro energie, del loro tempo o dei loro beni. La mostra illustra la vicenda di questa medievale “compagnia di opere”, attraverso la riproduzione degli affreschi del Pellegrinaio e l'esposizione di quattro registri originali dell’Ospedale nelle cui copertine sono dipinte scene della vita dell’opera.

Questo connubio ospedale-arte, malattia del corpo-cura dell'anima si può riassumere in una sola frase: "la carità si fece bellezza". Come arriva questo messaggio ai nostri giorni?
Al dualismo di cui soffre la nostra cultura di moderni, questa unità di carità e bellezza appare immediatamente strana: la prima volta che sono entrata nel Santa Maria della Scala, sotto le volte decorate da grandi pittori senesi, sono rimasta colpita che un luogo nato per ospitare malati, poveri, orfani fosse così bello, così curato. Non credo che fosse una preoccupazione immediatamente estetica a determinare questo risultato: è che quando un popolo vive un’esperienza di certezza – come recita il tema del Meeting 2011 – questa fiorisce come creatività buona e si stampa sulle cose come bellezza. D’altronde ognuno di noi sa che questa è l’esigenza che ha, quella di qualcuno che si prende a cuore la totalità della propria persona, non riducendola ad un moncone: desideriamo qualcuno che guardi con simpatia tutto il nostro bisogno. Quando siamo malati, non siamo la nostra malattia: restiamo uomini che hanno un’urgenza di cura immediata dentro una più vasta esigenza di verità e di bellezza. Questa esperienza non è finita: se uno visita certe opere – penso, solo per fare due esempi, alla Cometa di Como o all’Impresa di Carate Brianza che accolgono ragazzi in difficoltà ritrova questo “strano” connubio.


      Come sceglie l'argomento delle sue mostre sempre così frequentate?
Voglio raccontare come è nata la prima di queste mostre della CDO al Meeting. Nel 2008 avevo portato alcuni miei amici imprenditori pratesi al  Meeting e li avevo accompagnati nel padiglione della CDO: dopo la visita a pranzo, uno di loro mi chiese quale fosse la proposta della Compagnia delle Opere. Tornata da Rimini, scrissi al Presidente della CDO Bernhard Scholz che quella domanda a pranzo mi aveva fatto capire che forse occorreva rendere più efficace la comunicazione dell’esperienza nell’allestimento del padiglione. Gli scrissi anche che visto che la CDO aveva messo a tema in quell’anno il lavoro, si poteva curare un allestimento con le formelle di Giotto che lo traducono così suggestivamente. Così è cominciata quest’avventura che svela che quello che i giornali chiamano la “potente Compagnia delle Opere” è un’amicizia che sa coinvolgere chiunque ha un’idea interessante, anche un insegnante come me di un Istituto professionale di provincia. E così è continuata in questi tre anni in cui abbiamo scelto ogni anno di presentare un grande capolavoro della nostra tradizione artistico culturale che traducesse il tema che la CDO ogni anno mette al centro della propria proposta.
     Qual è dunque lo scopo di quest'ultima mostra?
Quest’anno la CdO ha scelto come tema “Una responsabilità che cresce con la forza dell’origine”: per questo al cuore della mostra di quest’anno riprodurremo gli affreschi del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala, dove nel Quattrocento la grande opera senese volle fissare in quattro “fotogrammi” la sua storia, in altri quattro il suo compito. Una realtà cresce quando resta fedele alla sua origine: questa era l’urgenza del Santa Maria nel XV secolo, come oggi della Compagnia delle Opere. A completamento della mostra, ci saranno gli stand di otto opere, tra le tantissime associate alla CDO, scelte per documentare come l’animo da cui è nato il Santa Maria, viva come tentativo anche oggi.

Insegnanti socratici o sofisti? Genitori sarti o pittori?

Lo Stato, con i tagli alla scuola, sembra concordare con Socrate: il sapere non è una merce. A questo punto avevano ragione i sofisti…
di Olga Sanese pubblicato su "Il Sussidiario.net" il 16/6/2011

Socrate si distingueva dai sofisti perché questi ultimi vendevano il loro sapere. Quindi potrebbero dirsi socratici – per usare un eufemismo - tutti quegli insegnanti che oggi insegnano gratis perché un posto di lavoro nella scuola italiana non ce l’hanno, magari a causa dello scarso punteggio o perché mancanti di abilitazione nazionale (tuttora non conseguibile) o perché non ancora iscritti in graduatoria.
Quest’anno, infatti, in tutta Italia, sono sorti numerosissimi “Centri studio” pomeridiani e “Doposcuola” dove giovani ragazzi hanno aiutato nello studio persone bisognose di ripetizioni, ma che non potevano  permettersi un insegnante privato a casa.
In una anno scolastico in cui il Ministero della Pubblica Istruzione ha perso cause milionarie dopo le numerose sentenze dei TAR di varie regioni per la stabilizzazione di precari (che non erano più supplenti da tempo ma occupavano stabilmente cattedre del tutto vacanti), sono sorte anche Associazioni di Promozione Sociale (e dunque, in parte, sovvenzionate dallo Stato) con lo scopo di insegnare italiano agli stranieri, ancora non riconosciuta come materia nelle scuole pubbliche. E indovinate chi vi insegna? Volontari.
E si possono citare numerosi casi simili. Per esempio su La Stampa di Torino del 20 marzo scorso un giovane laureando in Scienze della Formazione Primaria che aveva conseguito privatamente un titolo di conoscenza dell’inglese si offriva per insegnare gratuitamente la lingua della Gran Bretagna in una scuola elementare cui era stato tagliato il maestro di lingua. A Roma, da circa un anno, è attivo il “Centro studi” di Tor Bella Monaca, una difficile periferia romana, in cui gli insegnanti-volontari accolgono e aiutano nello studio numerosi stranieri che spesso vanno lì non solo per apprendere, ma anche soltanto per stare in compagnia. Non mancano genitori che vi parcheggiano i loro figli per non pagare la babysitter… Per non parlare di quello che è successo in una scuola di Campagna Lupia (Nord est) che, dopo aver rischiato di chiudere, ha aumentato di gran lunga la sua offerta formativa grazie alla sponsorizzazione dell’Associazione Pro Lughetto, come emerge da un articolo pubblicato da Il Gazzettino del 25 marzo scorso. A Milano i prof volotari si sono riuniti in una cooperativa e insegnano dall’ora di pranzo alle cinque e mezza del pomeriggio nella Scula popolare di via Natta, in zona Lampugnano. A Campobasso, poi, la giovanissima Chiara Picciano (24 anni) organizza lezioni di recupero presso il Convento dei Frati Cappuccini a cifre davvero irrisorie.
Contro i tagli non si mettono in moto solo professori, ma gli stessi genitori, dimostrando una volta tanto che la coppia educativa funzioni davvero. Padri e madri di famiglia ritinteggiano le pareti delle aule scolastiche dei propri figli la domenica o, come accade alla primaria “Stoppani” di Milano, si mettono all’asta, cioè offrono lavori di sartoria, di pianoforte, di pilates, di ping pong a chi dà un finanziamento alla scuola dei loro figli.
Ma perché avviene tutto ciò? Perché i genitori, invece di fare gli “indignados” come in Spagna, offrono tempo e soldi ala scuola dei loro figli che dovrebbe essere mantenuta dallo Stato? Perché è nel dna degli italiani agire, invece che piangersi addosso (e ai vertici lo sanno e se ne approfittano). E poi come mai un neolaureato decide di insegnare gratis? Si tratta di ragazzi caparbi che hanno scelto l’Università e la via dell’insegnamento non come ammortizzatore sociale (come forse i loro genitori hanno fatto un tempo) ma perché credono fortemente nel valore del sapere e perché hanno a cuore la disciplina che hanno studiato e gli studenti a cui si rivolgono. Il fatto che lo facciano volontariamente fa capire come c’è in loro un insopprimibile desiderio di trasmettere ciò che hanno imparato. Dunque, dopo la decisione di Gelmini-Tremonti secondo cui 65.000 precari diverranno di ruolo  in tre anni, si aspetta qualcosa in più per i più giovani, preparati e pronti ad entrare nel mondo della scuola con tutta la loro voglia di ri-costruire un’istituzione nuova e più forte.

Non solo solo supplì: a Roma si “mastica” siciliano

di Olga Sanese pubblicato su MAG MAGAZINE di giugno-luglio

Arancino o arancina? Questo è il dilemma, perché i romani non hanno ancora imparato a “masticare” il sostantivo giunto. Ma è un problema solo di lingua o anche di palato quello che affligge gli abitanti della capitale cerca dell’originale arancina siciliana senza dover prendere l’aereo?
Proviamo a sciogliere questo nodo e andiamo in una delle catene pseudo-siciliane di arancine made in Roma: “Mizzica” e “MondoArancina”, rosticcerie che si contendono lo scettro della migliore arancina romana pretendendo di eguagliare quelle siciliane. E invece…udite, udite… hanno prodotti così fantasiosi dall’essere sconosciuti proprio ai conterranei di Verga!
Per esempio, se passate da Mizzica potete scegliere arancine abbastanza sobrie come quelle al Ragù, a forma di vulcano più che di palline da tennis, oppure quelle perfettamente sferiche di MondoArancina, dove troverete arancine di tutti i tipi e colori da far impala dire i veri siciliani: accanto a quelle Bianche (piselli, burro, prosciutto), Spinaci e Besciamella, Melanzane, pesce spada o salmone, Pistacchio, Pollo e peperoni, Funghi, ci sono le “arancine romane” con broccoli e salsiccia, alla carbonara , carciofi o ricotta e spinaci. A queste si aggiungono quelle che hanno i nomi delle città siciliane: catanese, messinese (con le alici), Favignana (con tonno, capperi e olive), Lipari (con sarde, finocchiella, uvetta e pinoli), Trapani (patate e pesto). Infine, per fare boom, c’è l’arancina gusto “Vulcano” al nero di seppia (per eguagliare cenere e lapilli) o “Etna” al peperoncino.
Così è (se vi pare) la terra di Pirandello vista da Roma: tutta arancine e cassatine. Infatti, nei punti vendita MondoArancina (che vantano ricette scupolosamente originali a base di ingredienti provenienti dalla Sicilia) i romani possono addentare lo sfincione, le iris, i cartocci, e’ panelle, il pane ca' meusa, le pizzettone, i rollò, le ravazzate, i spietini, le genovesi, i ravioli, gli anelletti, le sarde beccaficu, la pasta di mandorla, le sfinci, la cuccia, i pitoni messinesi, la focaccia messinese, la cassata al forno, le crostate con ricotta, le treccie, il buccelato, i pupi u l'ova e, ovviamente, i cannoli preparati al momento.
Colpisce, inoltre, il fatto che “Mizzica” si avvalga solo di personale qualificato di origine catanese con un grande bagaglio di esperienza nel settore dell’alimentazione ed una grande passione per la lunga tradizione culinaria siciliana come dimostrano nel preparare cartocciate rustiche con lo sfoglio di cipollina con prosciutto, pomodoro, mozzarella, o al Patè (con prosciutto e mozzarella), Wurstel e prosciutto, Spinaci e salsiccia, Diavola, Carciofi, Melanzana,  Funghi, Spinaci, Peperoni.
E se aggiungiamo anche le schiacciate Siciliane con Tuma, Broccoli + olive nere + Salsiccia, Cavolfiore il Commissario Montalbano di Camilleri chiederebbe subito il trasferimento!

Lavorare in Molise si può. Se sai come.

di Olga Sanese pubblicato su La Fonte di luglio 2011

Antonello Picciano, 27 anni, ingegnere gestionale alla Fiat di Termoli è uno dei pochi ma ottimi esempi di persone talentuose che tornano in Molise, dopo essersi formati fuori regione.
A 19 anni partì da Campobasso alla volta di Roma, carico di sogni e ambizioni ma, al tempo stesso, con la speranza di tornare. Per questo subito dopo aver ottenuto il massimo dei voti all’università Torvergata nel 2009 ha concentrato le sue ricerche di lavoro prima in Molise e poi altrove (contrariamente alla media regionale) e il titolo di studi conseguito lo ha certamente aiutato.

Dopo qualche mese di ricerca e vari colloqui ti è stato offerta la possibilità di lavorare  un anno presso la DR Motor di Isernia: com’è andata?
È un’azienda giovane che con un’idea vincente è riuscita ad entrare nel complesso e competitivo mercato automobilistico. Lì ho avuto l’opportunità di confrontarmi con gli entusiasmi e le problematicità di una realtà che stava vivendo la fase di start-up.

Poi, circa un anno fa, si è presentata, la grande opportunità di poter sostenere un colloquio a Torino con la Fiat…
Dopo aver passato le selezioni la Fiat mi aveva assegnato allo stabilimento di Foggia, ma poi - che strana la vita! -  mi hanno cambiato la destinazione: dovevo andare a Termoli; iniziavo così a lavorare in Fiat ad un’ora dalla mia città.

Da molisano che cosa vuol dire lavorare in uno stabilimento storico del gruppo Fiat, come quello di Termoli Motori?
Avere in Molise un punto strategico della catena produttiva del gruppo torinese è un’opportunità grandissima per tutto il territorio e l’indotto; e questa consapevolezza accresce il mio senso di responsabilità nel raggiungere sempre  il massimo negli obiettivi professionali, sia per la soddisfazione e la carriera personale sia per continuare ad affermare che Termoli vuole essere un punto fermo e strategico del gruppo Fiat.  

Ma cosa ha voluto dire tornare in Molise nella tua vita privata?
Naturalmente, dopo sei anni trascorsi fuori, mi sono dovuto ambientare di nuovo in una città, che per quanto sentissi mia, non avevo vissuto per molto tempo e nella quale non c’erano più i miei punti di riferimento: gli amici di scuola, di pallavolo, del teatro, dello stadio… Molti di loro sono andati a studiare fuori e  non sono più tornati.

Che cosa si potrebbe fare per tenere in Regione la ricchezza umana che è stata costretta a trasferirsi altrove per trovare lavoro?  
La mancanza di scelte politiche volte a scommettere su queste risorse sta portando la regione ad un’immobilità da cui sarà difficile uscire. Se i migliori sono costretti a rimanere altrove non possono certo contribuire alla crescita della nostra terra. In qualsiasi contesto, però, la creatività, l’entusiasmo e le competenze possono innovare e creare nuove opportunità. Nei miei sogni c’è la speranza che, in un futuro non troppo lontano, i giovani molisani possano tornare nella propria regione senza dover rinunciare ai propri desideri.
E certamente tu sei un esempio positivo di come non sia del tutto impossibile coniugare le aspettative personali e l’opportunità di vivere in Molise.