Lingua e cultura italiana rappresentano il nostro patrimonio comune. Poeti e letterati furono i patrioti nel nostro Risorgimento. Anche oggi, alla luce de “Il Primato morale e civile degli Italiani” di Gioberti, riscopriamo la cultura e i giovani per ritornare ad essere “primi” nel mondo.
di Olga Sanese su l'Ottimista del 31 marzo 2011
Ogni volta che riesco a fare una frase ben concepita, salda nella bella lingua che abito, che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia (Raffaele La Capria ). L’italiano, infatti, è la nostra “matria” come dice Massimo Cacciari, il collante decisivo per la nostra Unità, fondamenta della Nazione politica. Da sempre, la lingua del popolo precede e condiziona ogni avvenimento politico e ogni forma del vivere; lo stesso Manzoni, per esempio, dovette sciacquare i panni in Arno nella consapevolezza che la questione linguistica era un problema civile e politico prima che artistico o estetico, come ha ricordato Ernesto Ferrero su La Stampa. Ma l’italiano usato dalla letteratura diventò lingua comune solo dopo l’Unità, attraverso l’istruzione obbligatoria, il servizio militare e, nel dopoguerra, con i mezzi di comunicazione di massa.
È interessante notare che la peculiarità dei nostri letterati fu quella di essere anche esponenti della vita pubblica; basti pensare a Cicerone, Machiavelli, De Sanctis, Croce e Gentile. Patrioti dell’Unità furono, dunque, anche intellettuali del calibro di san Francesco, primo autore della letteratura italiana, Petrarca che scrisse “Italia mia, benchè 'l parlar sia indarno”, Manzoni che diventò senatore nella consapevolezza che l’Italia era “Una d’arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor” come si legge in Marzo 1821; così anche Leopardi che scrisse “All’Italia” e il “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani”, Silvio Pellico con “Le mie prigioni”, Ippolito Nievo con le “Confessioni di un italiano” fino ad arrivare a Carducci, cantore ufficiale dei Savoia. Ma possiamo giungere ai nostri giorni se si pensa a Luzi, anche lui senatore, che definì l’Italia “ un’aspirazione”, un “desiderio” come dice Rondoni.
Ma c’è un intellettuale di cui non si è parlato durante le celebrazioni per i 150 anni dall’Unità politica dell’Italia: Vincenzo Gioberti, l’autore de "Il Primato morale e civile degli Italiani", pubblicato nel 1843. Si tratta di una glorificazione appassionata del genio della stirpe italica, superiore a tutti gli altri popoli nella storia della civiltà. Ancora oggi questo testo potrebbe essere incitamento formidabile agli italiani ad operare per riacquistare la nostra grandezza. La tesi giobertiana, in fondo, è la seguente: l'Italia, che nel medioevo aveva moralmente e civilmente dominato il mondo grazie alla Chiesa, doveva tornare ad essere maestra di civiltà.
"E qual più bello spettacolo può affacciarsi alla mente di un Italiano, che la sua patria una, forte, potente, devota a Dio, concorde e tranquilla in se medesima, rispettata e ammirata dai popoli? Io m'immagino la mia bella patria: una di lingua, di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino...
"E qual più bello spettacolo può affacciarsi alla mente di un Italiano, che la sua patria una, forte, potente, devota a Dio, concorde e tranquilla in se medesima, rispettata e ammirata dai popoli? Io m'immagino la mia bella patria: una di lingua, di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino...
Da questo passo si evince come Gioberti contempli l'immagine dell'Italia quale l'ha costruita con la storia, il desiderio e l'amore di figlio, dando molto spazio al ruolo della cultura e della moralità. Così oggi, 150 anni dopo l’Unità, non è più l’Austria il vero nemico che opprime la nostra libertà ma l’ignoranza, l’emergenza educativa, una scarsa densità della cultura e una non considerazione della forma. Tanti maestri e scrittori eccelsi ha vantato il nostro Paese ma oggi vaga lo spettro degli analfabeti, secondo il Villari e l’Ascoli. Per questo c’è bisogna di intellettuali e insegnanti che siano consci del grave e sublime ministero loro commesso dal cielo, non far delle lettere strumento di lucro, di ambizione, di potenza a proprio vantaggio, ma di virtù, di cultura, di religione a pro dell'universale.
Proprio da questa cultura dobbiamo ripartire per far ripartire l’Italia. E per questo bisogna guardare soprattutto ai giovani perché, come diceva Gioberti, essi sono solleciti di rinnovare in se stessi i costumi degli antichi avi piuttosto che quelli dei propri padri; attendere indefessamente agli studi, fuggire l'ozio, la dissolutezza, i vani spettacoli, i donneschi trastulli, .... esercitare il corpo, per renderlo ubbidiente all'animo, forte agli assalti, tollerante alle privazioni, e indomito ai travagli.
Dunque, gli italiani son fatti. Ora bisogna (ri)fare l’Italia.
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