giovedì 5 maggio 2011

Un poeta tra i Beati: Karol Wojtyla e la passione per il teatro

Non tutti sanno che Giovanni Paolo II fu anche autore di un’opera teatrale e di numerose poesie. Le scrisse negli anni in cui era attivamente impegnato nel Teatro rapsodico di Cracovia. Nonostante l’occupazione tedesca della Polonia, infatti, continuava a tenere rappresentazioni clandestine in case private.
La bottega dell’orefice è la storia d’amore di due giovani sposi. Il titolo  prende spunto dall’orefice presso cui la coppia acquista le fedi per il matrimonio. A causa di un momento di crisi, però, la ragazza torna alla bottega per far valutare la sua fede e riscattarla. Emblematica è la risposta dell’orefice: “Questa fede non ha peso, la lancetta sta sempre sullo zero e non posso ricavarne nemmeno un milligrammo d’oro. Suo marito dev’essere vivo – in tal caso nessuna delle due fedi ha peso da sola – pesano solo tutte e due insieme. La mia bilancia d’orefice ha questa particolarità che non pesa il metallo in sé, ma tutto l’essere umano e il suo destino”. L’amore dei giovani sposi non è, dunque, riscattabile perché legato indissolubilmente alla loro vita e al loro destino.
Quest’opera teatrale, fatta di dialoghi, prosa e versi, ha una valenza metaforica: vuole dimostrare che “certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l’amore, e l’amore umano (…) troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l’uomo ha a disposizione un’esistenza e un amore” per “farne un insieme che abbia senso (…). L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore (…). L’ uomo si tuffa nel tempo” ma poi finisce col “dimenticare” la sua origine per “esistere solo un attimo e recidersi dall’eternità”. La vita sembra, infatti, un “prendere tutto in un momento e tutto subito perdere” per poi “ritornare a quell’attimo già trascorso, per averlo di nuovo e, attraverso quell’attimo, tutto”.
Questa tematica del tempo la si ritrova anche nella poesia inedita La svolta, ritrovata alla fine di gennaio di quest’anno presso l’archivio della Curia metropolitana di Cracovia e forse risalente al 1944. Il componimento, di una bellezza giovanile unica in cui emerge tutta la passione per la vita e allo stesso tempo per il Creatore, inizia con la parola “Chiedete”. Un invito a rivolgersi al Signore per qualsiasi cosa, anche per la più piccola, nella certezza che Egli ascolti ciò che hanno da dire i nostri cuori, segnati da una “lancia sconosciuta” che è il desiderio di Dio. In  noi, infatti, “lottano il gotico dell’anima e il rinascimento del corpo” che, se bagnato nel piacere, ci ritroviamo poi ad asciugare nella polvere. Con queste parole, Karol ci vuole probabilmente dire che se rincorriamo piaceri esasperati finiamo per perderci; ma “anche attraverso l’oscurità” in cui potremmo cadere, Wojtyla assicura che Cristo chiama le nostre “mani in aiuto”. A nulla serve legarle con “corde di vimini”, dunque, come ordinava di fare Ulisse ai suoi marinai per sfuggire alle Sirene.
Proprio in questa poesia Karol definisce “attimo ardente” quell’incontro in cui “chi ha accostato la vita una volta, la vita non gli si opporrà”. Nonostante ciò, però, l’uomo continua ad agitarsi a tal punto che Cristo stesso gli si rivolge con una domanda, quella di sempre: “perché fuggi? perchè non sei un condottiero?”. Questa domanda sottolinea che la debolezza umana non regge il confronto nemmeno con l’evidenza della verità che ha davanti, neppure se sulle nostre ferite Cristo insanguina mani e piedi.
Drammatica è, allora, la conclusione: “la folla getta sulla riva sempre nuovi profeti”. Qui Wojtyla  riecheggia l’evangelico “Nemo propheta in patria” perché è questo insistente non riconoscerLo che fa scrivere a Giovanni Paolo II: “hanno respinto le (sue) mani dai petti degli straccioni”. Ma questi “straccioni” non sono persone non abbienti, bensì tutti quegli uomini che non si rendono conto di quanto siano poveri e bisognosi anche solo di una mano che – disinteressatamente – viene loro offerta.

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