lunedì 30 maggio 2011

Prof. che cos’è un beato?

Come spiegare agli studenti che Wojtyla sarà santo

di Olga Sanese pubblicato su L'Ottimista del 18/5/2011

-         Prof. questa non è l’ora di religione, dalla quale siamo volutamente esonerati.
Inizia così la difficilissima lezione sulla santità. Con un’alunna che pone già troppi paletti alla spiegazione. Perciò l’ora in cui si parlerà del perché Wojtyla sarà fatto santo dovrà cominciare quasi con un’autodifesa da questo incalzante attacco studentesco.
-         Prima che un Papa, Karol Wojtyla è stato un grande uomo, oltre ad essere stato anche un poeta e un autore di teatro.
Con questa frase si chiudeva l’ora di religione e iniziava quella di italiano (ma solo perché il Papa era stato anche un letterato), soprattutto per il fatto che, se all’esame di Stato fosse uscita la traccia su Giovanni Paolo II, avrebbero fatto bene un terzo delle prove scritte. Che non è male.
Conquistati, dunque, da una motivazione alquanto opportunistica, gli studenti iniziano a prendere appunti sulla vita del predecessore di Benedetto XVI. A quel punto tocca prendere il discorso alla larga - sempre per non suscitare reazioni simili a quelle del primo intervento – e iniziare dall’etimologia della parola beato: per gli antichi romani essere beati voleva dire essere felici. I beati erano infatti quelli che abitavano l’età dell’oro dove tutto era donato senza fatica: la terra dava i suoi frutti spontaneamente e l’uomo non era destinato a morire. L’isola dei beati era quella in cui si accedeva dopo la morte. Per gli antichi, dunque, la felicità coincideva con la possibilità di non morire (questa, infatti, era l’unica differenza tra gli dei e gli uomini) o con il carpe diem, cioè con una felicità dai contorni ben precisi o, come diremmo oggi, “a tempo determinato”. Per i cristiani, invece, la felicità coincide con la visio dei, cioè con la visione di Dio: durante tutta la nostra esistenza sentiamo questa mancanza (“il nostro cuore è inquieto, finché non trova pace in Te” diceva mirabilmente sant’Agostino) fino a quando non ci troviamo faccia a faccia con il Creatore del mondo e della vita. Un beato è, quindi, colui che ha “la beatitudine” (accanto a tutte le altre di cui gli evangelisti Matteo e Luca parlano nel discorso della montagna) di poter vedere Dio a quattr’occhi e di ammirarLo subito dopo la morte.
Ma la cosa più importante da fare con gli studenti era innanzitutto chiarire che la santità non è limitata a pochi eletti e nemmeno a soli Papi (Bonifacio VIII, per esempio, era finito nell’Inferno dantesco). I Santi non sono delle persone di lassù cadute per caso sulla Terra, ma persone di quaggiù che con il loro comportamento si sono conquistati un posto anche lassù. La santità, dunque, è la chiamata che ciascun uomo ha su di sé. Non occorrono meriti trascendenti, basta fare la volontà di Dio. E che vuol dire questo? Che se litighi con un amichetto devi dimenticare il rancore che hai dentro e cercare di perdonarlo prima che la giornata finisca (non tramonti il sole sulla vostra ira, dice poeticamente l’Antico Testamento), che sei disposto a rinunciare a qualcosa per l’altro, che si è felici il doppio se si fa a metà di ogni cosa, che sei pronto a perdere te stesso, tutti i tuoi limiti, i tuoi vizi e le tue paranoie pur di ritrovare la tua vera essenza. Queste cose, che sembrano così piccole, sono in realtà difficilissime da ottenere, ma non impossibili. Basta rispondere alla chiamata del cuore. E i santi non aspettano il secondo squillo…

giovedì 26 maggio 2011

Cosa hanno in comune I-pod e Montale? I cocci...

Ricordate questi versi di "Meriggiare pallido e assorto"?
"com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia".

Ieri in classe, per spiegare la poesia di Montale, ho dovuto riportare all'attenzione i ragazzi che volevano continuare a giocare con l'I-POD durante la spiegazione, dicendo:
"Levate quei cocci"

Ovviamente sono rimasti sbalorditi. "Cocci? Queste tavolette costano una frega de sordi!"

Da qui ho avuto lo spunto per palare di Montale che credeva la vita come una "trappola" per l'uomo, dalla quale non si può uscire perchè siamo circondati da "cocci aguzzi di bottiglia". 

E subito ho tirati in ballo i miei alunni:

"Anche voi, come Montale, siete intrappolati in quei cocci che sono i vostri I-POD che vi impediscono di vivere la vita vera.."

mercoledì 25 maggio 2011

Da filologa a bancaria

Una campobassana è tra i vincitori del concorsone alla Banca d’Italia
di Olga Sanese pubblicato su "La fonte 2004" del mese di aprile
Prima di partecipare al concorso in banca, la nostra concittadina, ventottenne, aveva solo quel “capitale” di conoscenza, acquistato nel corso degli studi di filologia classica, che avrebbe potuto investire solo nei tornei di Trivial Pursuit.
D’altronde, si sa, i concorsi pubblici sono un terno al lotto e le persone vi partecipano più per non avere rimorsi sulla coscienza di non aver tentato la sorte che con la speranza di passare le prove. Con questo animo la nostra campobassana che, da una decina di anni vive a Roma, ha fatto domanda per quei 40 posti da vice-assistente alla Banca d’Italia a marzo dell’anno scorso.
Dopo aver sfondato la prima selezione per titoli in cui la Banca d’Italia ha sfoltito il gruppo dei 170.000 facenti domanda in 17.000, si è recata alla mega prima prova – un test di 90 domande in 90 minuti su cultura generale, logica, informatica ed inglese – dove ha fatto fuori altre 16.500 persone circa. All’ingresso dell’hotel dove si è tenuta la prova non può non ricordare quel “Decameron” di persone che erano lì come lei: c’erano donne (anche in stato interessante), uomini con i capelli bianchi (a un passo dalla pensione), precari (come sempre la maggior parte) e neolaureati: tutti con quel sogno nel cassetto che si chiama “posto fisso”. Ed è stato divertente ascoltare ciò che la gente diceva prima di entrare. C’era la snob esperta di concorsi (non avendone mai passato uno!) che diceva: “Io il mese scorso ho provato quest’altro concorso ed erano organizzati diversamente”; c’è lo strappalacrime napoletano che esclamava: “Che la Madonna ci accompagni … io tengo famiglia!”. Certo veniva spontaneo chiedersi una cosa: “Ma se tutta questa gente oggi ha preso un permesso dal lavoro, l’intera Italia si ferma per un concorso?”.
Così passata la prima prova, non restava che il temutissimo orale, dove – si sa – bisogna essere più bravi dei raccomandati. E per descrivere com’è andata, la nostra neo-bancaria, che al momento del concorso studiava per diventare archivista, ci ha lasciato una sua riflessione:
Prima o poi, durante l’orale, il fulmine a ciel sereno doveva arrivare: “Perché ha scelto di fare il concorso per entrare in Banca d’Italia?”. Beh, nello stato di tensione generato dal turbinio di formule chimiche e arcipelaghi asiatici che si affollavano nella mia testa, l’unica reazione che sarei riuscita a esternare avrebbe avuto il carattere in tutto simile alla risata isterica e un sincero “chi me l’ha fatto fare” a mezza bocca, tanto per restare alla più sobria delle eventualità. E  assistere al profondo sconforto dell’ingegnere elettronico che, poco prima di me, non era riuscito a spiegare il funzionamento della gabbia di Faraday ha un che di surreale e forse di patologico. Ma quando stai per affidare la chance di un posto di lavoro alla tua memoria e alla tua capacità di ragionamento, il tuo cinismo si autocensura perché tutto, in quel momento, si rivela profondamente serio e decisivo. E giù miracoli di diplomazia, se non di disonorevole ruffianeria, o tutt’al più risposte vaghe e incespicanti che a metà viravano sui toni del comizio o della crisi esistenziale. Per fortuna la domanda capitatami poi a bruciapelo è stata su Sacharov e Solzenicyn, forse per quella regola secondo cui, in fondo, ognuno ottiene ciò che si merita. Ad ogni modo, ancora oggi, mentre aspetto di conoscere la mia sede di assegnazione, sento di non essere riuscita a ripristinare del tutto la mia vena ironica.
Auguri, allora, a un’altra giovane di talento sfornata dalla nostra regione!

sabato 14 maggio 2011

MATEMATICI AL PUB CON DANTE

di Olga Sanese

Un nutrito gruppo di ragazzi delle più diverse facoltà si ritrova una sera al mese nel bar dell’Università per leggere e commentare un canto della Divina Commedia. All’inizio erano solo in dieci, ora sono quasi settanta gli universitari che riconoscono nell'esperienza di Dante e in quello che comunica loro una così grande umanità da ritrovare se stessi almeno in un punto di ogni canto, come se fossero davanti a uno specchio che permette loro di vedere meglio chi sono.
Una tipica serata dantesca inizia con la domanda “Come abbiamo lasciato Dante la scorsa volta?” , ricordando anche perché dedicano tempo a un’opera che, per la maggior parte di loro, non è neanche oggetto di esame.
Si procede poi alla spiegazione del canto da parte di chi l’ha preparato in vista dell’incontro; non si tratta di un dantista e quindi, con il suo commento, dimostra di essere tutto se stesso in quel canto proclamato con la sua voce e col supporto degli altri convitati.  Capita spesso che l’evento si concluda con un canto, come quando hanno ascoltato “ La mente torna” di Battisti, Mogol e Mina dopo la spiegazione del II dell’Inferno: parole come “apro già la porta ma … arrivi tu, la mente torna, il cuore mio quasi si ferma” fa pensare a Dante quando sente nominare Beatrice e poi rivolgendosi a Virgilio dice: “Tu duca, tu segnore e tu maestro”. Vedendo Dante, all’inizio, dubbioso sulla sua guida e, tre minuti dopo, “saltare in braccio” a Virgilio, si potrebbe pensare: “Questo è matto, che cosa si è bevuto?”. Eppure noi siamo tutti un po’ così.
Ma ciò che colpisce di più è che i ragazzi che partecipano alle serate dantesche non siano solo di Lettere; questi, per esempio, si entusiasmano molto soprattutto per il rapporto che Dante ha con i classici antichi, dei quali colgono tutta la portata, attraverso la valorizzazione senza censure degli aspetti essenziali (inteso nel senso dell'essenza più profonda della loro natura). I ragazzi di Fisica, invece, si soffermano su cose che i letterati non noterebbero mai, come la teorizzazione dei buchi neri che si intravede nel III canto. Da lì, infatti, emerge che la terra si è spostata a causa dell’arrivo di Lucifero (scagliato da Dio al centro della terra, nel punto più lontano, dopo la sua ribellione con tutti gli angeli del suo cerchio).  In particolare Dante dice che Lucifero ha, intorno alla vita, come una cinta (materia condensata) che è la forza in grado di tenere fermo lui e tutta la terra, bilanciando l’intero sistema.  E i matematici non sono da meno nel trovare spunti interessanti; come afferma uno di loro: “Per Dante scrivere una cosa all’inizio o alla fine del verso cambia totalmente il senso della frase (è come se qualcuno sostituisse la x con la y): la sua scrittura, infatti, è precisa e ogni parola ha il giusto peso.  Inoltre l’Alighieri ha la inimitabile capacità di condensare in un'espressione pregnante un mondo di significati che si spalanca davanti al lettore quasi all’improvviso. Per esempio si può discutere se viene portato da Caronte, dall’angelo o chissà da chi altro, ma il maestro spinge l’allievo a capire soprattutto qual è il senso dell’azione e ciò lo induce ad entrare dentro le sue parole ed averne la spiegazione. Per esempio, quando compriamo un giornale, si ha la pretesa di capire tutto da una notizia. Per Dante non è così, la scrittura è solo un rimando a qualcos’altro: il maestro scrive, poi c’è tutto il lavoro dell’ allievo. Anche nella Vita Nova dice che “è meglio che il lettore capisca da solo quello che ho scritto”.
In una serata dantesca, insomma, è possibile sentire spiegazioni dell’episodio di Caronte alla stregua del seguente: “Più lieve legno convien che ti porti si riferisce a qualcun altro che accompagnerà Dante su una barca più bella e più leggera di quella di Caronte. Immaginate un ragazzo con la 500 che invita una fanciulla a ritornare a casa con lui dopo scuola e intanto arriva un altro con la Ferrari che gliela ruba. A quel punto il ragazzo della 500 parlerebbe in modo un po’ sdegnato, proprio come Caronte.”
Cosa vuol dire dunque “avere in faccia” ciò che dice Dante nella Divina Commedia, che è il fine di queste serate? La risposta è nel paragone tra noi e  Dante che sa (se si vede il II canto) che quando ci si perde non si è più in grado di stare di fronte all’evidenza immediata della verità. Beatrice è stata la causa della sua conversione e Dante avrebbe bisogno di lei, ma adesso che lei non c’è, l’immediatezza concreta su cui fare affidamento è Virgilio. Questi, che a volte dice a Dante di non “scocciare” con quel “ te lo dico dopo”, spinge l’Alighieri ad abbassare gli occhi come se pensasse: “Porca miseria, ho fatto una cazzata”. Succede così anche a noi quando abbiamo molti dubbi e vorremmo  che le persone vicine ci dicessero quello che vorremmo sentirci dire. E, invece, chi ci troviamo davanti – come Virgilio -  ci fa vergognare, che è proprio quello che accadde a Dante!

mercoledì 11 maggio 2011

Oggi la paura del terremoto, Ieri della peste nera. I miei ragazzi scriveranno il Decameron?

di Olga Sanese su IL MATTINO di Napoli del 12/5/2011

Oggi una classe intera ha disertato scuola per paura del terremoto.Si sono organizzati per una scampagnata aVilla Doria Pamphili.
Ora, facciamo finta di essere nel Medioevo: questa esorcizzazione della morte non è forse alle origini del Decameron di Boccaccio? Anche lì 10 ragazzi lasciarono la città per andarsene in campagna pur di sfuggire alle peste nera del 1348.
Dunque domani che dirò loro, quando torneranno in classe felici di non essere morti?
Probabilmente chiederò loro di raccontarmi 100 novelle...

IL DIRETTORE RISPONDE

Cara Olga, ieri mattina negli uffici romani si è presentato il venti per cento in meno degli impiegati per paura del fantomatico terremoto che, in base ai pronostici di qualche indovino, avrebbe dovuto radere al suolo la Capitale. Per fortuna l’evento non si è verificato e il terrore panico che sembrava spingere migliaia di romani a sospendere le normali attività del quotidiano si è dissolto in una allegra risata.

La scolaresca di cui lei parla si è dunque adeguata al clima da fine mondo che, goliardicamente o meno, si respirava a Roma da settimane. Con rincorse sul web, vaticini di finti esperti e inviti alla ragionevolezza dell’istituto nazionale di Geofisica che ha aperto le sue porte tentando di tranquillizzare i cittadini più eccitati.

In quel 1348, anno della peste che ispirò il Boccaccio, almeno un fatto più che concreto era accaduto. La calamità non era virtuale e la scampagnata era in realtà una fuga per la salvezza, alleviata dai racconti dei protagonisti. Oggi assistiamo alle fiammate virtuali che nascondono solo una gran voglia di evadere, si tratti dell’ufficio come delle ore di lezione. Al suo posto, non me la prenderei con la classe che ha fatto bisboccia ma con tutti quegli adulti che avrebbero dovuto dar l’esempio e invece hanno portato acqua al mulino di Bossi che tuona contro i pigroni della Capitale. Bell’affare.

giovedì 5 maggio 2011

Un poeta tra i Beati: Karol Wojtyla e la passione per il teatro

Non tutti sanno che Giovanni Paolo II fu anche autore di un’opera teatrale e di numerose poesie. Le scrisse negli anni in cui era attivamente impegnato nel Teatro rapsodico di Cracovia. Nonostante l’occupazione tedesca della Polonia, infatti, continuava a tenere rappresentazioni clandestine in case private.
La bottega dell’orefice è la storia d’amore di due giovani sposi. Il titolo  prende spunto dall’orefice presso cui la coppia acquista le fedi per il matrimonio. A causa di un momento di crisi, però, la ragazza torna alla bottega per far valutare la sua fede e riscattarla. Emblematica è la risposta dell’orefice: “Questa fede non ha peso, la lancetta sta sempre sullo zero e non posso ricavarne nemmeno un milligrammo d’oro. Suo marito dev’essere vivo – in tal caso nessuna delle due fedi ha peso da sola – pesano solo tutte e due insieme. La mia bilancia d’orefice ha questa particolarità che non pesa il metallo in sé, ma tutto l’essere umano e il suo destino”. L’amore dei giovani sposi non è, dunque, riscattabile perché legato indissolubilmente alla loro vita e al loro destino.
Quest’opera teatrale, fatta di dialoghi, prosa e versi, ha una valenza metaforica: vuole dimostrare che “certe volte la vita umana sembra essere troppo corta per l’amore, e l’amore umano (…) troppo corto per una lunga vita. O forse troppo superficiale. In ogni modo l’uomo ha a disposizione un’esistenza e un amore” per “farne un insieme che abbia senso (…). L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore (…). L’ uomo si tuffa nel tempo” ma poi finisce col “dimenticare” la sua origine per “esistere solo un attimo e recidersi dall’eternità”. La vita sembra, infatti, un “prendere tutto in un momento e tutto subito perdere” per poi “ritornare a quell’attimo già trascorso, per averlo di nuovo e, attraverso quell’attimo, tutto”.
Questa tematica del tempo la si ritrova anche nella poesia inedita La svolta, ritrovata alla fine di gennaio di quest’anno presso l’archivio della Curia metropolitana di Cracovia e forse risalente al 1944. Il componimento, di una bellezza giovanile unica in cui emerge tutta la passione per la vita e allo stesso tempo per il Creatore, inizia con la parola “Chiedete”. Un invito a rivolgersi al Signore per qualsiasi cosa, anche per la più piccola, nella certezza che Egli ascolti ciò che hanno da dire i nostri cuori, segnati da una “lancia sconosciuta” che è il desiderio di Dio. In  noi, infatti, “lottano il gotico dell’anima e il rinascimento del corpo” che, se bagnato nel piacere, ci ritroviamo poi ad asciugare nella polvere. Con queste parole, Karol ci vuole probabilmente dire che se rincorriamo piaceri esasperati finiamo per perderci; ma “anche attraverso l’oscurità” in cui potremmo cadere, Wojtyla assicura che Cristo chiama le nostre “mani in aiuto”. A nulla serve legarle con “corde di vimini”, dunque, come ordinava di fare Ulisse ai suoi marinai per sfuggire alle Sirene.
Proprio in questa poesia Karol definisce “attimo ardente” quell’incontro in cui “chi ha accostato la vita una volta, la vita non gli si opporrà”. Nonostante ciò, però, l’uomo continua ad agitarsi a tal punto che Cristo stesso gli si rivolge con una domanda, quella di sempre: “perché fuggi? perchè non sei un condottiero?”. Questa domanda sottolinea che la debolezza umana non regge il confronto nemmeno con l’evidenza della verità che ha davanti, neppure se sulle nostre ferite Cristo insanguina mani e piedi.
Drammatica è, allora, la conclusione: “la folla getta sulla riva sempre nuovi profeti”. Qui Wojtyla  riecheggia l’evangelico “Nemo propheta in patria” perché è questo insistente non riconoscerLo che fa scrivere a Giovanni Paolo II: “hanno respinto le (sue) mani dai petti degli straccioni”. Ma questi “straccioni” non sono persone non abbienti, bensì tutti quegli uomini che non si rendono conto di quanto siano poveri e bisognosi anche solo di una mano che – disinteressatamente – viene loro offerta.

lunedì 2 maggio 2011

MAMMA, TI PRSENTO LO SPONSOR – ECCO CHI FINANZIA LE IDEE DEI GIOVANI

Si fa un gran parlare dei giovani d’oggi un po’ ovunque: si dice che sono disoccupati, che addirittura uno su cinque né studia né lavora e che chi è occupato non avrà la pensione. C’è chi dice che questo dipenda dalla loro scarsa volontà di fare e che restino volontariamente a casa di mamma e papà fino a quarant’anni, e chi, invece, fa ricadere tutta la colpa sulla generazione precedente che – vivendo nell’età dell’oro per  benessere e opportunità – ha pensato solo a sé stessa e non al futuro dei loro figli, o che almeno non ha contrastato quel giovanilismo allora appena nascente che avrebbe portato via proprio dai giovani il loro futuro. Insomma, quegli adulti che hanno creato una società siffatta sarebbero gli stessi che poi si piangono addosso per i loro figli senza futuro. Ma questo loro pessimismo non aiuta certo i giovani e farsi strada.
 Nonostante ciò molti ragazzi di oggi realizzano i loro desideri e i loro sogni, pur non incontrando favore presso gli adulti che spesso non finanziano le loro idee. Ma i giovani, per natura, non demordono davanti al primo inghippo che trovano e cercano altri modi per realizzare i loro progetti. La moda del momento è ricorrere a uno sponsor, cioè a un’azienda che si carica delle spese necessarie per fare in modo che un’idea venga realizzata, in cambio di pubblicità al “mecenate”.  Oggi questa modalità è diffusissima, tanto che gli sponsor sono ovunque, dalla scuola che si presta come set per girare i “Cesaroni”, alla riforma dell’università che permette alle aziende di entrare negli atenei, dai privati che comprano banchi e sedie per le istituzioni scolastiche alle imprese che pagano il master agli studenti se lo portano a buon fine. Al di là di questi semplici esempi, ce ne sono alcuni che fanno davvero sorridere. Il caso più eclatante è quello di due ragazzi milanesi che, senza un  euro in tasca, pur di sposarsi, hanno creato un blog dove pubblicizzare le aziende che stanno finanziando le loro nozze. E indovinate un po’ come l’hanno chiamato? Mi sposo con lo sponsor. Ebbene sì, anche il matrimonio non è più quello di una volta, quando si invitavano parenti anche di terzo grado al pranzo nuziale; ormai bisogna adeguarsi ai tempi della crisi e se c’ è un settore che non muore mai è proprio la creatività giovanile.
Un’idea simile era già venuta a due ragazzi romani che, nella loro partecipazione di nozze, avevano inserito il sito web in cui avevano messo il giorno e il luogo del matrimonio, la mappa per raggiungere i luoghi della Chiesa e del ristorante e, infine, le informazioni sulla lista nozze. Ma non finisce qui. I due giovani letterati in procinto di sposarsi hanno risparmiato anche i soldi per l’album fotografico, mettendo le foto digitali del loro matrimonio sul sito suddetto. Addio, dunque, alle “traversate” per andare a vedere il tradizionale album nuziale a casa degli sposi; ormai basta digitare la loro url da casa. Poi, dopo il matrimonio, si possono vedere anche le foto del viaggio di nozze e,  un giorno, quelle dei nascituri.
Altrettante sono poi le idee che i giovani autofinanziano, mettendo a rischio soldi e tempo. Si legge sui giornali che alcuni ragazzi hanno realizzato un laboratorio di teatro per giovani attori in un paese- fantasma ormai spopolato, un cinema high tech in un vecchio locale rimesso a posto per proiettare cortometraggi indipendenti mentre si degustano cibi equo e solidali, una masseria per i festival di writers e, infine, la rivista di cultura che lancia scrittori esordienti.
Si può dunque dire che i “bamboccioni” di ieri sono i manager di oggi.