martedì 15 novembre 2011

Marystar se n'è andata e non torna più

Facciamo i conti… alla scuola gelminiana
di Olga Sanese pubblicato dall'editore PAGINE nel mese di ottobre 2011

Con la fine di ogni "Magistero scolastico" è d’obbligo fare un bilancio delle riforme realizzate per valutare ciò che si può ancora fare nel corso dell’anno e guardare in prospettiva al futuro. Il 2010/2011 è stato pieno di provvedimenti scolastici e, ovviamente, di polemiche; avrà aiutato sicuramente la giovinezza della Ministra, un po’ meno la scure dei tagli di Tremonti. La Gelmini infatti, da quando ha iniziato il suo Ministero, ha sempre avuto a cuore i principali problemi della scuola italiana: insegnanti sviliti e poco pagati, l’assorbimento del precariato, la valutazione del livello dei ragazzi attraverso l’Invalsi, l’allacciamento tra il mondo della scuola e quello del lavoro; il tutto attraverso una parola chiave fondamentale per la crescita qualitativa dell’istruzione: il merito. Termine che fa ancora paura alla sinistra sessantottina ma che è alla base di una vera uguaglianza sociale.  
La bocciatura con il cinque in condotta (valido strumento per dare un voto al comportamento disciplinare dei ragazzi) o l'impossibilità di essere ammessi all'esame di Stato con una sola insufficienza sono stati salutati come un mezzo necessario per ridare auctoritas alla figura del docente e per ritornare alla scuola seria e selettiva di una volta, proprio quella che è agognata da insegnanti come la scrittrice Paola Mastrocola, autrice del libro fortunatissimo “Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di (non) studiare” (Guanda), fotografia della scuola italiana di oggi scattata con una disincantata lucidità ma al tempo stesso con la voglia e l’esperienza necessaria per poterla cambiare. L’odierna condizione scolastica risalgono – secondo la Prof. Mastrocola – a Don Milani e Gianni Rodari, De Mauro e Berlinguer, due coppie micidiali per la scuola del secondo Novecento che sono  passate per il fatidico (e fatale) Sessantotto. Don Milani, infatti, fu avverso al sapere letterario giudicato appannaggio dei ricchi, svalutando così il concetto di conoscenza e Gianni Rodari trasformò il sapere in gioco, eliminandone la serietà e la profondità; ma secondo tali ragionamenti tutto ciò che era difficile e noioso andava eliminato per dare spazio a ciò che aveva delle ricadute pratiche immediate. E qui si riallacciano i Ministri dell’Istruzione di sinistra che hanno deprezzato gli studi speculativi non profit (per dirla con la filosofa Nussbaum)  per far aumentare il “consumo” di quelli tecnico-pratici senza farli, tuttavia, decollare. Il colpo letale fu poi inferto - in nome di uno pseudo egualitarismo - dal “diritto al successo formativo”, tomba della scuola meritocratica e, dunque, democratica, ma figlio di quel Sessantotto che ostentava il sei politico e la sovversione della figura dell’insegnante, che voleva appiattire talenti e meriti, rei di essere vivi nelle persone in modi e quantità differenti.
Di queste idee il Ministero Gelmini ha cercato di riprendere il rilancio degli istituti professionali con l’alternanza scuola-lavoro dando dunque un incentivo a quella formazione tecnico-pratica di cui l’Italia ha bisogno ma che, puntualmente, viene sdegnata. Anche quest’anno, infatti, le iscrizioni dei quattordicenni hanno rivelato che continua la massificazione dei licei, lievemente quanto incomprensibilmente riformati.
Questi ultimi, per accogliere studenti numerosi e non sempre preparati, hanno dovuto abbassarsi di livello, anche per una dilagante disaffezione verso gli studi umanistici, dai più superficialmente considerati “inutili”. Costoro infatti ignorano che i classici insegnano un’ineguagliabile metodo di studio e uno stile di vita che i Paesi stranieri ci invidiano e che dovrebbe far parte del nostro “made in Italy”.
Ma questo è stato anche l’anno che ha introdotto le prove Invalsi, macchina valutativa del livello scolastico dei ragazzi, al biennio delle superiori. Tra le polemiche di chi li ha ideologicamente boicottati c’è da dire che la scuola ha bisogno di valutazione innanzitutto per migliorarsi: se non si misurano le conoscenze dei ragazzi come si potrà intervenire per innalzare il loro livello? E da qui è facile a passare a un altro criticato aspetto delle novità gelminiane: la valutazione dei docenti, necessaria per gli aumenti di stipendio tanto desiderati. Anche se le scuola che hanno aderito a questa prima sperimentazione si contano sulle dita di una mano, i docenti migliori sono stati finalmente premiati con una mensilità in più. È strano come si parli sempre dei nostri insegnanti come dei meno pagati d’Europa e poi quando arrivano gli incentivi non si trova nessuno che voglia aderire!
Ma anche i ragazzi hanno avuto i loro premi. Alcune scuole italiane hanno iniziato a incentivare economicamente gli studenti più bravi. Forse qui si è andati un po’ oltre il buon senso: in realtà studiare è un dovere, non un merito, visto che imparare e crescere è la “retribuzione” al “lavoro” dei ragazzi. Viceversa se l’impegno quotidiano vale solo per un interesse economico sarebbe quasi diseducativo insegnare a non fare mai “niente per niente”, anche perché, una volta cresciuti, si troveranno in un mondo che funziona all’opposto, in cui cioè chi lavora sul serio riceve uno stipendio da stage.

Ma veniamo ora alle dolenti note: i tagli, le classi pollaio, l’insufficienza dei finanziamenti per i corsi di recupero e per il sostegno dei disabili ma anche l’infinito precariato degli insegnanti. Quest’ultimo è da sempre una spina nel fianco del Ministero dell’Istruzione che usa il 97% dei suoi fondi per pagare gli stipendi. Ad ogni modo il duetto Gelmini-Tremonti quest’anno ha dovuto assumere 65.000 precari tra docenti e personale ATA, che diventeranno di ruolo (cioè, fuori dal gergo scolastico, a tempo indeterminato) in tre anni, per evitare di perdere altre cause giudiziarie milionarie come quella di Genova del 25 marzo scorso, quando il Ministero della Pubblica Istruzione fu condannato dal Tribunale del Lavoro a un maxi risarcimento di 500mila euro per la mancata stabilizzazione di quindici lavoratori della scuola (non supplenti ma stabilmente su cattedre vacanti) cui era stato reiterato il contratto a tempo determinato per dieci anni. Nonostante ciò essi venivano regolarmente licenziati da giugno ad agosto per poi essere riassunti a settembre anche se la legge europea stabilisce il dovere di assunzione da parte del datore di lavoro (in questo caso il MIUR) dopo tre anni di contratto a tempo. A questo punto il Ministero è corso ai ripari attraverso una legge relativa solo al mondo della scuola che invalida quella europea, per evitare di perdere altri ricorsi simili su sentenza del giudice di turno.
Il precariato però è la conseguenza di anni di governi di Sinistra che fecero della scuola un ammortizzatore sociale, allungando le graduatorie all’infinito. Prima della Gelmini, Fioroni le chiuse, trasformandole da “permanenti” ad “esaurimento”, sbarrando l’ingresso anche agli ultimi abilitati. A quel punto la prima cosa che fece il Ministro del Governo Berlusconi fu riaprirle per far rientrare gli abilitati, ma - a sua volta - chiuse le SSIS togliendo ai laureati la possibilità di abilitarsi, con questa parola d’ordine: “Assorbire il precariato e non farne più”. Per questo il Tirocinio Formativo Attivo – nato sulle ceneri delle scuole di specializzazione chiuse tre anni fa- che abiliterà nuovi insegnanti da quest’autunno ha un numero limitatissimo di posti che coincidono con il reale fabbisogno di insegnanti. A questo punto, però, si dovrà pensare anche a un numero chiuso per le facoltà umanistiche, se per costoro non c’è possibilità di insegnare. Tuttavia la questione non è così semplice: togliere a un laureato la facoltà di abilitarsi vuol dire anche impedirgli di insegnare nelle scuole non statali, che da quando sono state parificate alle pubbliche (nel 2000, sotto il Governo di Centro Sinistra) offrono un servizio educativo alle famiglie che hanno la possibilità di poter iscrivere lì i loro figli e che fanno risparmiare enormi cifre allo Stato.  
E proprio lo Stato dovrebbe investire sulla scuola di più e bene – dopo che ha eliminato gli sprechi – perché essa è l’ascensore della società, se vuole far ripartire lo sviluppo con criteri democratici e meritocratici. Questi giganti principi, però, non possono fondarsi sul terreno argilloso dei tagli, altrimenti si darebbe ragione a quei manifestanti che il 22 giugno lanciavano i libri, e quindi il nostro patrimonio, le nostre radici e la nostra storia contro Montecitorio.

NON DI SOLO PIL VIVE L’UOMO


di Olga Sanese pubblicato su L'Ottimista del 9 novembre 2011

Venerdì 4 dicembre al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro si è tenuta la presentazione dei nuovi 12 domini, o parametri, per la misurazione della ricchezza di un Paese che in futuro manderanno in soffitta il vecchio PIL,  finora unico strumento utilizzato.
Ma com’è nata questa iniziativa? Sicuramente dalla volontà dei Presidenti Marzano (Cnel) e Giovannini (Istat) che nel dicembre 2010 hanno avviato una inter-Commissione, cioè un’iniziativa congiunta, al fine di misurare il “benessere equo e sostenibile” (Bes). La loro proposta si inquadra in un vivace dibattito internazionale sul cosiddetto "superamento del Pil", stimolato dalla Commissione Stiglitz – Sen – Fitoussi e dalle iniziative dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) per la misura del progresso delle società.
Già nel giugno 2010 il giornalista Donato Speroni con il suo libro “I numeri della felicità” (edizioni Cooper) – con una prefazione del Presidente dell’Istat Enrico Giovannini – aveva dato il suo contributo italiano al dibattito internazionale e oggi ecco i frutti che può raccogliere. Al benessere economico, infatti, sono stati aggiunte altre 12 misure di “felicità”: l’ambiente, la salute, l’istruzione e formazione, il lavoro e la conciliazione tempi di vita, le relazioni sociali, la sicurezza, il  benessere soggettivo, il paesaggio e il patrimonio culturale, la ricerca e l’innovazione, la qualità dei servizi, la politica e le istituzioni.
Da notare il dibattito nato intorno alla “propensione al volontariato” (inserito nel dominio delle “relazioni sociali”): infatti un Paese che dona il suo tempo agli altri è sicuramente più ricco, sia economicamente (perché ha la possibilità di aggiungere alle ore di lavoro, quelle per fare volontariato) sia perché donare dà  felicità a chi è generoso e a chi riceve. Come diceva Baden Powell, infatti, “la vera felicità consiste nel rendere felici gli altri”. Lo stesso Benedetto XVI nella “Deus est caritas” afferma che “La carità sarà sempre necessaria anche nella società più giusta”.
Pertanto il dominio sulle “relazione sociali”, alla fine del dibattito, recita così: “L’intensità delle relazioni sociali che si intrattengono e la rete sociale nella quale si è inseriti non solo influiscono sul benessere psico-fisico dell’individuo, ma rappresentano una forma di “investimento” che può rafforzare gli effetti del capitale umano e sociale. La famiglia costituisce un luogo di osservazione privilegiato delle relazioni, insieme alle altre forme di relazione e di reti: dai rapporti di amicizia e di lavoro, di comunità e di vicinato, all’impegno nel pubblico e nel volontariato”.
Ma non finisce qui: gli studiosi sono ancora al lavoro e hanno istituito un blog (http://www.misuredelbenessere.it/) e un questionario online dove ciascuno di noi può dare il suo contributo  esprimendo sinteticamente la propria opinione in merito alle 12 dimensioni del benessere finora proposte dal “Gruppo di indirizzo sulla misura del progresso della società italiana” creato dal Cnel e dall’Istat.
Dunque dal censimento della popolazione alla misurazione del benessere sono i cittadini di oggi che disegnano il mondo di domani.
Allora che aspettate a dire cosa vi fa ricchi, cioè felici? Votate, votate, votate!

mercoledì 9 novembre 2011

Letterati di tutto il mondo, unitevi!

"La rinascita dell’Umanesimo" pubblicato su L'Ottimista del 2/11/2011
di Olga Sanese

Dopo la provocazione  del professore di Letteratura italiana all’Università di Trento Claudio Giunta su Il Sole 24 ore di domenica 16 ottobre si è scatenato su giornali cartacei e su quelli web il dibattito sul nuovo Umanesimo che staremmo vivendo, discussione culminata sulla prima pagina del Corriere della Sera del 27 ottobre.
Due settimane fa Giunta ha mirabilmente spiegato perché, da un lato, c’è un forte desiderio di cultura diffusa (anzi, proprio di istruzione), e dall’altro non è certamente pensabile di laureare in Lettere una nazione intera.  Le facoltà umanistiche, infatti, sono le uniche (o quasi) che non hanno ancora il numero chiuso, nonostante siano quelle che offrano meno sbocchi sul mercato del lavoro; tuttavia metterle ad accesso programmato “va contro gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nel ‘processo formativo” ed “è serenamente ignorata dallo Stato. Più studenti s’iscrivono più soldi arrivano, più insegnamenti si attivano, più docenti si sistemano” (C. Giunta). Per questo il Professore propone “un esame d’ingresso alle facoltà umanistiche (…) selettivo (…) sul programma scolastico svolto negli ultimi tre anni in determinate materie; o su un certo numero di libri fondamentali che bisognerebbe aver letto al liceo”. Per Giunta non si tratta di un vero e proprio numero chiuso ma di un test orientativo che spinga soltanto chi è davvero portato a frequentare Lettere e non coloro che vi si iscrivono solo perché non sanno cosa fare.
Attraverso questa provocazione Giunta approfitta per allargare il discorso e ripensare la mission delle Università umanistiche che è “formare ottimi insegnanti e intellettuali dotati di senso critico che riescano ad innalzare il tono delle professioni pubbliche (giornalismo, politica)”. Ma per far questo bisogna cominciare da un nuovo Umanesimo: “migliorando l’istruzione di base, è possibile, probabile forse, che si formino dei cittadini migliori, che all’idea di cultura – di cultura personale, di applicazione e studio – resteranno affezionati anche una volta usciti dalla scuola secondaria”. Questo è il compito principe delle discipline umanistiche nella scuola che anche i giovani insegnanti devono essere pronti ad affrontare.
D’accordo con Giunta è anche Annalisa Andreoni, ricercatrice IULM, che il 18 ottobre scorso – sempre sulle colonne del Domenicale del Sole 24 Ore -  ha affermato che il rilancio della cultura umanistica non può avvenire  trasferendo le biblioteche e i corsi di laurea sulle piattaforme informatiche e ipotizzando di tradurre, a beneficio dei giovani lettori, poeti e scrittori della nostra tradizione. Questo faranno i migliori; gli altri si sono limitati a intervenire in programmi televisivi portando il punto di vista del "filosofo" ed esprimendo dotti pareri su una vastità di argomenti che vanno da Seneca” al giallo di Avetrana o presentando il libro del loro migliore amico. Per l’Andreoni “bisogna investire in quello che è strategico, ed è strategica la scuola, che deve essere difficile e severa, e deve avere le risorse per seguire più da vicino chi avanza lentamente. È in questo percorso che si deve formare la cultura e il senso critico del cittadino, e qui le discipline umanistiche svolgono un compito insostituibile. Le facoltà universitarie, invece, devono essere professionalizzanti. A Lettere, non diversamente che altrove, si deve imparare un mestiere (che sia quello dell'insegnante di scuola media, di critico, di storico, di intellettuale), cosa che prevede la conoscenza precise nozioni e il possesso di un bagaglio tecnico.”
Ma l’idea di un nuovo Umanesimo non viene solo da letterati. A tal proposito, originale è stato il contributo del Professore del Politecnico di Torino Vittorio Marchis che nel suo “Anche i tecnici devono aprirsi” (Sole 24 ore del 23 ottobre) ha auspicato l’ingresso di materie umanistiche (filosofia, scienza umane, sociologia) anche nelle facoltà scientifiche per far in modo che gli studi tecnici diventino più umani e quindi più allettanti (cosa che già accade al di là dell’atlantico dove tra i due tipi di corsi c’è pari dignità).
Ma è con Julia Kristeva (Corriere della Sera del 27 ottobre) che viene “rifondato” l’Umanesimo contemporaneo, alla vigilia di Assisi. L’anticipatore, il primo a dare l’idea di uomo agli uomini è  Gesù quando si descrive dicendo “Io sono”. E noi possiamo “tras-umanar”, come diceva Dante, soltanto se camminiamo alla ricerca del la verità e solo dopo aver capito che rapporto esiste tra l’essenza umana e tutto l’essere che ci circonda, quell’infinito che è la dimensione della nostra libertà.
Per questo ci auguriamo una rifondazione continua dell’umanesimo anche attraverso rotture che, secondo l’acuta Kristeva, non possono che essere innovazioni.

mercoledì 2 novembre 2011

PICCOLI LETTORI CRESCONO

Di Olga Sanese su L'Ottimista del 25 ottobre 2011

Da giovedì 13 ottobre è ripartito il progetto dell’Osservatorio permanente giovani-editori intitolato "Il Quotidiano in Classe". Le scuole d’istruzione superiore secondaria che vi aderiscono riceveranno ogni settimana i quattro giornali più diffusi in Italia, vale a dire il Corriere della Sera, il Sole 24 ore, La Gazzetta dello Sport e un quotidiano regionale (a seconda della localizzazione della scuola) per avvicinare le nuove generazioni alla lettura del giornale, anche grazie all’abitudine di confrontare queste grandi testate giornalistiche sull’interpretazione dei fatti del giorno. L’idea del quotidiano in classe venne a Andrea Ceccherini nel 2000, anno di nascita dell’iniziativa, sotto il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al fine di invogliare i giovani a ad informarsi su ciò che accade intorno a loro a mo’ di “moderna forma di educazione civica day by day”.
Il progetto si articola in tre punti: le lezioni in classe (alle quali si dedica la lettura del quotidiano), la formazione fornita agli insegnanti dall’Osservatorio promotore dell’iniziativa (sui “trucchi” per presentare la lettura del giornale nella luce migliore) oltre ad un nuovo servizio di assistenza didattica on-line e, infine, la valutazione dell’iniziativa da parte degli studenti (per esempio: come vorrebbero trasformare i giornali di domani?) monitorata dall’Eurisko che presenta i dati al convegno "Crescere tra le righe", ogni due anni.
Anche per l'anno scolastico 2011/2012 l'Osservatorio prevede "5 lezioni in cerca d'autore. Appuntamenti di anticonformismo quotidiano", incontri di formazione che si svolgeranno in varie città d’Italia e saranno tenuti da giornalisti professionisti delle suddette testate, e il concorso “citzen journalism”, dedicato agli studenti che forniscono idee giornalistiche originali via web e che riceveranno in premio una tablet, il nuovo supporto per leggere i giornali. 
Ciò che colpisce di più è che quest’anno siano stati sfiorati i due milioni di studenti che partecipano all’iniziativa oltre ai 46000 insegnanti (questi ultimi sono i veri promotori sul territorio dell’iniziativa nazionale), per un totale pari al 70 % della popolazione scolastica. Ceccherini non può che essere fiero delle adesioni soprattutto perché vanno in controtendenza rispetto ai dati sulla crisi dell’editoria.
Da sempre il rapporto scuola-informazione è un nodo cruciale per l’istruzione. Sin dalle elementari si cerca di portare gli scolari nelle redazioni giornalistiche per far vedere loro dove e come nasce un quotidiano, pagine di storia fresche di giornata. Infatti leggere il quotidiano è essenziale per saldare nel migliore dei modi il passato (ciò che si studia a scuola), il presente (l’attualità di cui parlano i quotidiani) e il futuro (come sarà la loro vita da adulti).  Per i cittadini del domani è infatti importante conoscere e interrogarsi sul presente anche perché spesso, con le nuove tecnologie, sono portati a vivere più la virtualità che la realtà. Invece, sfogliare la carta (chissà se ciò avverrà ancora per molto?!) riporta i ragazzi alle sfide del loro tempo e magari un giorno saranno loro ad analizzare i fatti della giornata…
Insomma piccoli giornalisti si diventa … se lettori si cresce!