giovedì 28 luglio 2011

RISULTATI INVALSI 2011. Prof e studenti del centro-sud: damose da fa'!

Interssanti soprattutto i dati della II classe della Secondaria di II Grado (è il primo anno che l'Invalsi sbarca alle sup):

Italiano: nel sud e nelle isole il livello dei liceali è quasi uguale ai tecnici delle due aree settentrionali

Per la matematica: i licei e istituti tecnici stessi esiti nel nord-est e nord-ovest.

Dal centro invece i licei molto differenti rispetto al sud.

Al Sud i licei hanno livelli più bassi dei tecnici del nord!!!

mercoledì 27 luglio 2011

SAY YES: il nuovo tormentone pubblicitario

di Olga Sanese su L'Ottimista del 21/7/2011

“Ti hanno insegnato che nella vita devi imparare a dire no. Falso. La vera cosa difficile da dire è sì”. Ci ha tenuti col fiato sospeso quella pubblicità che ha disseminato i suoi frammenti su tutti i free-press (e non solo) della scorsa settimana. All’inizio c’erano due belle pagine totalmente in bianco con su scritto “Say yes”. Poi, giorno dopo giorno, quei candidi fogli venivano riempiti da situazioni in cui era bello “dire di sì”. Alla fine il puzzle di indizi è arrivato nella sua interezza con un importante messaggio, sostenuto a gran voce anche dal nostro giornale: “O bevi, o guidi”. Così l’arcano segreto è stato svelato: si tratta della pubblicità di una nota birra italiana.
A differenza della velocità in cui si srotolano la gran parte delle reclames su tutti i mass media, il bello di questo nuovo tormentone pubblicitario è che si è fatto strada piano, piano, attraverso un linguaggio che ricorda molto da vicino quello della trasmissione condotta quest’anno su Rai Tre da Fabio Fazio e Roberto Saviano  Vieni via con me (che forse ripartirà l’anno prossimo su un’altra rete), se si focalizza l’attenzione su una sententia in particolare che recita così: “ al desiderio di ogni italiano di lasciare il proprio paese. Sì alla voglia di ritornare a casa”.
Alla stregua di questa, molte altre frasi sono improntate alla fierezza di essere italiani (“Sì al gusto tutto italiano per la bellezza e la qualità” ) - proprio nell’anno in cui si celebrano i 150 dall’Unità politica del nostro Paese – e rilanciano anche uno stile di vita e di pensiero ottimista come “Sì ai milioni di persone che vorrebbero cambiare il mondo e alle centinaia che ci provano sul serio” o “Sì alle decine che qualcosa l’hanno cambiato davvero”. Alcune fanno riferimento agli amici o alla famiglia:  “Sì a tuo padre che non ti chiama, ma è dietro tua madre che ascolta”. Oppure sono legate alla vita professionale: “Sì alle notti in bianco per finire un lavoro e per poi andare in bianco”. O ancora alla cultura: “Sì a quei libri che ti hanno cambiato la vita  e a quelle vite che ci si potrebbe scrivere un libro”.
Le frasi sono tutte scritte con un carattere diverso (vari font e diverso spessore delle lettere) e sono affiancate da immagini stilizzate che ricordano da vicino il linguaggio dei social network: c’è la manina, il dito che indica la frase, l’emoticon del bicchiere, la cornetta telefonica di Skype, gli omini pieni di colore come Facebook. Il linguaggio, poi, è molto colloquiale, non mancano stilemi tipici dell’italiano contemporaneo come dislocazioni e “che” usati come complementi oggetto.
Dunque, dire tutti questi “sì” nella nostra quotidianità, magari aggiungendo un sorriso, è la risposta giusta a qualunque domanda e a ogni situazione che ci troviamo a dover affrontare. Solo così “la sete di vita e passioni sarà soddisfatta fino in fondo”. Proprio come con un bicchiere di birra.

giovedì 21 luglio 2011

TFA: Lupi e Mauro contro Mariastellina

Stamattina l’editoriale del sussidiario.net a cura dei due politici ciellini era un appello a cambiare le i numeri di accesso al Tirocinio Formativo Attivo.
Al grido di “o mamma, mi si sono ristretti gli abilitati!”, Maurizio e Mario hanno invocato la libertà di educare: che ne sarà, infatti, di quelle scuole cattoliche che dovranno assumere dalla laica graduatoria statale perché i cattolici che conoscono non hanno l’abilitazione?
Apprezziamoli perché danno una mano alla nostra causa, anche se a modo loro.

martedì 19 luglio 2011

La valorizzazione economica del lavoro volontario nel settore non profit

di Olga Sanese pubblicato su L'Ottimista del 12/7/2011

Quanto vale economicamente il volontariato? Ossia: quanto si spenderebbe se i volontari non lavorassero gratuitamente ma fossero regolarmente retribuiti per le attività che svolgono più o meno regolarmente? Di questo si parlerà nella mattinata del 5 luglio al Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro, durante la presentazione della Ricerca su “La valorizzazione economica del lavoro volontario nel settore non profit” realizzata  dall’Istat su richiesta dell’Osservatorio sull’economia sociale del Cnel.
Questo lavoro nasce dalla sfida lanciata il 26 ottobre scorso da Lester Salamon, Direttore del “Center for Civil Society Studies” della John Hopkins University (il più importante Centro di studio e di elaborazione a livello mondiale sull’economia sociale non profit) quando il Professore, partendo dalla constazione che al mondo d’oggi “solo ciò che si può contare, conta davvero”, auspicava di misurare anche il volontariato utilizzando dati, numeri e statistiche per far capire l’ordine di grandezza, la composizione e, dunque, l’impatto che avesse sulla società.
Ma come si misura il volontariato? In risposta a quest’interrogativo sono stati realizzati il “Manual on the Measurement of Volunteer Work” dell’Ilo  (International Labour Organization) e la Ricerca Istat-Cnel che sono entrambi oggetto del convegno.
Il primo contributo, di respiro internazionale, fornisce le indicazioni necessarie per conoscere il numero, le caratteristiche e il valore economico dei lavoratori volontari, evidenziando il fatto che il volontariato è «lavoro», cioè è produttivo - produce beni e servizi compresi nella definizione di produzione degli SNA – anche se non è né pagato né  obbligatorio; si tratta di tempo che alcuni individui dedicano gratuitamente ad attività svolte da un’organizzazione o direttamente ad altre pesrone al di fuori dell’ambito domestico, per almeno un’ora considerando un periodo di riferimento. Il lavoro volontario, dunque, fornisce un contributo economico e sociale alla società ed è fondamentale per il suo benessere (si vedano, per esempio, gli studi sui nuovi indicatori di benessere per la misurazione del PIL che Istat e Cnel stanno studiando insieme). Dal contributo dell’Ilo emerge, quindi, che sono 140 milioni i volontari dei 37 paesi  presi in considerazione dal Manuale dell’Ilo (pari al 12 % della popolazione adulta); essi lavorano in media 6 ore alla settimana e producono l’1.2% del PIL (più di 400 miliardi di US$) mentre ammontano a 20.8 milioni le occupazioni equivalenti a tempo pieno.
La ricerca tutta italiana dell’Istat si basa, invece, sull’ottavo Censimento dell’industria e dei servizi del 2001 da cui i volontari attivi nelle istituzioni nonprofit risultano essere 3.315.327 unità (con un + 3% rispetto al precedente) e il censimento dell’Istat relativo alle istituzioni nonprofit del 1999 che ha rilevato le ore prestate dai volontari. In particolare, nell’ambito della rilevazione censuaria, era previsto che ogni istituzione nonprofit indicasse il numero dei volontari distinti per la modalità di svolgimento dell’attività (saltuaria o sistematica) e, successivamente, il numero medio di ore prestate dai volontari dell’organizzazione nel mese di riferimento. Da qui è stato utilizzato il metodo del costo di sostituzione che consiste nell’assegnazione di un valore economico al tempo offerto dai volontari, per ogni tipo di funzione che assolvono, in accordo con il costo che sarebbe necessario pagare qualora si acquistassero gli stessi servizi di mercato, mentre una seconda variante ha assegnato la retribuzione di una professione “vicina” o comunque simile alla mansione che i volontari normalmente svolgono. La Ricerca, dunque, stima economicamente il lavoro volontario intorno allo 0,7% del PIL nazionale, riferito al 1999 che, se sommato al totale del valore della produzione di tutte le organizzazioni nonprofit, condurrebbe a quantificare la ricchezza prodotta da questo settore in Italia al di sopra del 4% del prodotto interno lordo.
La suddetta ricerca offre, dunque, una risposta importantissima a un interrogativo posto da tempo e sottolinea ancora una volta che il volontariato non è solo un atto individuale, ma ha un valore sociale ed economico. E questo risultato acquista maggior importanza alla luce dell’Anno Europeo del Volontariato, che ricorre quest’anno, proprio come auspicava il Prof. Salamon.

mercoledì 13 luglio 2011

Dalla zampogna alla musica classica, passando per Paolo Fresu

Intervista di Olga Sanese al musicista molisano Mario Evangelista pubblicato su La Fonte di Giugno 2011

“Non ricordo bene quale sia stato il mio primo incontro con la musica. Perchè in realtà è questa la variabile (molto stabile!) che da sempre accompagna la mia esistenza.” Inizia così il racconto del musicologo Mario Evangelista, classe ’84, insegnante di chitarra e critico musicale, nato e cresciuto a Campobasso ma che ora vive a Firenze.
Com’è iniziata la tua “carriera” musicale?
A dodici anni cominciai a giocare con la chitarra, senza sapere cosa fosse. Da lì in poi è stata un’escalation di passione. Nell’adolescenza sono passato all’elettrica e durante il liceo scientifico (fatto – per me - di classici latini, storia e filosofia più che di matematica e fisica) facevo dei mini tour tra Isernia e Campobasso che raggiungevano proporzioni woodstockiane (pubblico escluso).
Ma il grande passo avanti l’hai fatto quando hai deciso di fare di questo hobby una scelta di vita…
Sì, scegliendo di studiare Musicologia all’Università Firenze, dove ho incontrato finalmente la musica classica, soprattutto l’espressionismo tedesco, la Seconda scuola di Vienna e poi le avanguardie post weberniane. La prima cosa che ho portato da Campobasso all’Università è stata la mia chitarra e l’amplificatore, talmente grande da poter essere utilizzato come comodino-libreria. Il ricordo più bello dell’Università sono le lezioni di Armonia del prof. Franco Piperno: in due ore potevamo parlare di tutto, dagli intrecci polifonici di Josquin De Prez alla psichedelia di Aoxomoxoa dei Grateful Dead, fino ai recenti Coldplay (allora era appena uscito il singolo Yellow). Nel frattempo, facendo il pendolare, ho preso lezioni private di chitarra a Roma e poi a Milano con Bebo Ferra, chitarrista del Devil Quartet di Paolo Fresu.
E come te la cavi con la mucica molisana?
Nel 2005 ho deciso di acquistare la mia prima zampogna e di approfondire la musica della mia terra. Da allora tutti i miei amici sanno che ogni Pasquetta o Ferragosto dovranno sopportare un saltarello o una pastorale fuori stagione…
Dopo tanto studio, sei riuscito ad inserirti nel mercato della musica?
Oggi cerco di campare insegnando chitarra privatamente, suonando in giro, scrivendo di musica su riviste specializzate sia di etnomusicologia che di jazz… sperando così di arrivare alla pensione minima di mia nonna! La parte più bella dell’insegnamento è lo scambio reciproco tra allievo e docente, in cui l’esperienza didattica si può trasformare in esperienza di vita. È sconcertante come insegnare sia in realtà una forma insospettabile di studio. Al momento, poi, sto correggendo le bozze di un mio libro sul compositore Sylvano Bussotti che è già atteso da una casa editrice toscana. L’elaborato in realtà è la mia tesi di laurea specialistica.
Prima o poi tornerai in Molise?
Ogni giorno penso ad un mio ritorno in patria e sempre di più ciò mi sembra una follia. Torno sempre volentieri nella mia Terra, le sono affezionato, mi manca quando sono via e, quando cerco tranquillità, penso ai suoi luoghi incontaminati ed alla semplicità delle persone. Purtroppo però credo che i tempi non siano ancora maturi per poter essere musicista e musicologo in regione. Il Molise è un posto eccezionale, il luogo ideale dove nascere e crescere fino alla maturità... ma poi? Spero che vengano tempi migliori in cui cervelli e talenti molisani facciano ritorno nella nostra terra.

Che l’estate romana abbia inizio!

di Olga Sanese su L'Ottimista del 5 luglio 2011
Un’estate piena di eventi nella capitale: musica, cinema all’aperto, spettacoli, letture, teatro, mostre e sport. Per i più grandi e i più piccini, la Città Eterna si organizza per vivere delle belle serate estive all’insegna di arte e cultura, ma anche comicità e spensieratezza, in attesa delle ferie fuori porta.
Alcune manifestazioni si ripropongono ogni anno: la ricca passeggiata sulle sponde del Tevere abbellite da stands, bancarelle, discopub e ristoranti di ogni etnia, i concerti di “Rock in Roma” all’Ippodromo delle Capannelle, “Roma incontra il mondo” presso il Laghetto di Villa Ada, l’intramontabile Auditorium Parco della Musica o il Festival della Casa del Jazz.
Tantissime sono poi le novità di quest’anno a partire dal cabaret “all’ombra del Colosseo” che ha riempito la città di manifesti con su scritto “E fattela ‘na risata” e che ospiterà i più grandi comici italiani. I cinema all’aperto si sono moltiplicati sull’onda di quello storico in Piazza Vittorio Emanuele: infatti i film più visti dell’anno verranno proiettati anche all’arena di Garbatella, presso il Liceo Morgagni di Monteverde, alla Facoltà di Ingegneria vicino San Pietro in Vincoli e alla Casina del cinema di Villa borghese.
Imperdibile poi il teatro pirandelliano nella romantica scena della Basilica di Sant’Alessio all’Aventino dove verranno rappresentati, a serate alterne, “Sei personaggi in cerca d’autore” (il “teatro nel teatro”) e “I Giganti della Montagna” (ultima fatica dello scrittore siciliano); il tutto a un prezzo davvero popolare. Per rimanere in tema “cultura”, da non perdere le idilliache e gratuite “Letture lungo il fiume e tra gli alberi” a suon di musica sul Lungotevere Castello o, magari dopo una giornata trascorsa al mare, l’ “Approdo alla lettura” sul pontile di Ostia. Fuori Roma le bellissime Villa Adriana e Villa D’Este di Tivoli organizzano serate parallele: il Festival Internazionale del teatro la prima, le escursioni notturne la seconda.
Tra le mostre spicca l’apertura straordinaria del Consiglio Nazionale sull’economia e sul lavoro a Villa Borghese per i 150 anni dall’Unità d’Italia (solo sabato e domenica di luglio), “Viva l’Itaglia di Forattini” e l’ Omaggio al Beato Giovanni Paolo II organizzata a San Pietro.
Ma l’estate non è solo per adulti. Tante sono le iniziative per i bimbi: gli animatori del “Centro estivo al Teatro 7” organizzano escursioni a Villa Torlonia,  quelli del “Vacanze Natura” (Bioparco) intrattengono i più piccoli con escursioni, attività teatrali e musicali attraverso abbonamenti giornalieri o settimanali. E per i più grandicelli c’è il laboratorio d’arte moderna presso i Palazzo delle Esposizioni e “Il fantastico mondo del Fantastico” al Castello di Lunghezza. Inoltre, per tutti quei novelli Johnny Deep che passano per Anguillara c’è a manifestazione intitolata “I Pirati del lago”.
 Infine lo sport con gli eventi di Mondofitness in cui la ginnastica si fonde con le risate!
Tutto questo e molto altro è l’estate romana: una ricca serie di iniziative che ricorda l’importanza di sfruttare al meglio il tempo libero, quello che sarebbe bello dedicare ad attività appassionanti e assecondanti le proprie inclinazioni, magari in compagnia delle persone care.

giovedì 7 luglio 2011

LA NUOVA MODA di PARLARE IN LATINO

di Olga Sanese pubblicato su l'Ottimista del 28 giugno 2011

“De gustibus, excusatio non petita, verba volant: tutti sanno cominciare, solo i migliori sanno finire.” Così si leggeva su Internazionale del 29 aprile scorso che voleva tirare una frecciatina alla nuova moda british di parlare in latino. D’altronde, si sa, all’estero le lingue classiche danno ancora un certo tono a chi le conosce e riflettono molto fascino verso chi le vuole imparare. Così, sempre più ricercatori di lettere antiche fuggono nelle università americane o inglesi e sempre più anglosassoni forniscono validi contributi alla ricerca in queste materie. Insomma chi, sin da liceo, pensava di studiare una lingua morta si sbagliava di grosso!
In questo caso anche in Italia numerose scuole adottano il latino parlato come nuovo sistema per farlo studiare i propri ragazzi.  Esso viene appreso come se fosse una lingua straniera moderna, quindi parlandola. Niente più versioni scritte, dunque, ma dialoghi. Addio passività: occorre mettersi in gioco e cimentarsi oralmente con la favella di Cicerone e Virgilio. Il fattore decisivo è la soddisfazione provata dagli alunni quando scoprono il latino da un punto di vista comunicativo: si sentono, allora, degli antichi romani e l’ora di lezione spesso si trasforma in teatro: i ragazzi possono indossare gli antichi costumi romani, toghe e quant’altro.
Ma su cosa di basa l’apprendimento del latino parlato? Tutto nasce dal “Lingua latina per se illustrata” di Hans H. Ørberg, manuale scritto interamente in latino. Il metodo usato è quello induttivo, per cui non si dà più la regola per farla applicare nel testo ma, al contrario, si parte dal particolare (la lettura di un testo latino) e si “induce” la regola generale. Illustrazioni o note marginali accompagnano il testo e cercano di far intuire più facilmente il significato del testo. A questo scopo i capitoli della prima parte del corso formano una storia, una sorta di ‘romanzo’ in latino, su una famiglia-tipo del II secolo d.C.; la vicenda  attira gli alunni in tal modo che essi sono curiosi di conoscere il seguito. Mentre leggono, gli allievi familiarizzano con il vocabolario e la grammatica (che non viene certo eliminata!) che permette loro di procedere, nella seconda parte, alla lettura di una selezione rappresentativa della letteratura latina.
Ma la novità assoluta, quella che rende questo metodo veramente nuovo e “simpatico” per i ragazzi, è il “Pensum C” che consiste in una serie di domande, concernenti il contenuto del testo, che richiedono risposte in latino. Il metodo diretto si è mostrato, così, efficace tanto per l’insegnamento scolastico quanto per quello autodidattico.
In Italia, tra i sostenitori del metodo Horbeg, spicca la figura del prof. Luigi Miraglia che è uno dei promotori di questa nuova didattica del latino.
Insomma, come dice Internazionale:  per spiazzare i saputelli che parlano in latino c’è solo un mezzo: il greco”. Gli americani ci stanno già facendo un pensierino…

venerdì 1 luglio 2011

LETTERA AL MINISTRO GELMINI su TFA e reclutamento

Come uccidere il futuro delle giovani generazioni
da ilsussidiario.net 

1.
Chi vuole fare l’insegnante se lo scordi, almeno per dieci anni. Se tutto andrà bene. Chi sta frequentando o vorrà iscriversi il prossimo anno a un corso di laurea in matematica, lingue, lettere, filosofia, scienze motorie, ecc., con l’intenzione di insegnare, sappia che non sarà possibile, perché i nuovi posti previsti dalle tabelle ministeriali per ottenere l’abilitazione all’insegnamento – anche nelle principali classi di concorso – ammontano sostanzialmente a zero fino al 2015. “Zero tituli”. E presumibilmente si discosteranno di poco dallo zero fino al 2018.

Il governo ha compiuto la sua scelta (calcolata o subita): sta dalla parte dei già abilitati non ancora immessi in ruolo e inseriti nelle graduatorie a esaurimento. Una scelta, è inutile nasconderlo, che soddisfa pienamente le richieste dei sindacati e privilegia i “diritti acquisiti”. Il tempo di smaltimento delle suddette graduatorie è stimato dagli uffici ministeriali in sette anni (ma alcuni bene informati dicono dieci o quindici), perciò prima di quella data non vi saranno nuovi ingressi. E i giovani? Si arrangino. Del resto, quelli che vogliono insegnare rappresentano un modesto serbatoio di voti e sono alla fin fine innocui. Siano loro il capro espiatorio!

Un minino di dati. Con il Regolamento, datato 10 settembre 2010 e pubblicato in Gazzetta ufficiale il 31 gennaio 2011, il governo ha ridisegnato l’iter per ottenere l’abilitazione all’insegnamento dopo la chiusura delle SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario), avvenuta nel 2008. Il nuovo percorso prevede: per la scuola dell’infanzia e primaria, il conseguimento della laurea magistrale a ciclo unico quinquennale in Scienze della Formazione; per la scuola secondaria, bienni magistrali ad hoc per ogni classe di concorso, più un anno di Tirocinio Formativo Attivo (TFA), durante il quale, alle 475 ore da svolgere in una scuola sotto la guida di un insegnante tutor, si affiancheranno corsi e laboratori pedagogico-didattici da istituire presso una sede universitaria.

2.
Nel regolamento era annunciato il carattere “programmato” dell’accesso ai nuovi percorsi. Il numero di posti disponibili doveva essere calcolato in base al fabbisogno di insegnanti in ciascuna regione. Ma le prime stime del fabbisogno nazionale e regionale per i prossimi tre anni scolastici – già comunicate agli uffici regionali e alle università – riportano numeri che lasciano attoniti: poche manciate di persone per regione, anche per le classi di concorso più grandi. È il caso delle classi di Lettere (A050, A051, A052, A061) in diverse regioni di Italia, tra cui la Lombardia e il Lazio. Per la scuola secondaria di primo grado è addirittura nullo l’intero fabbisogno nazionale di insegnanti di Lettere.

Il governo, per voce dei suoi consulenti, si giustifica con fermezza e candore: a) il fabbisogno nazionale previsto per i prossimi anni, considerando tutti gli ordini di scuola, è pari a circa 230 mila insegnanti; b) il numero di docenti abilitati tramite i vecchi concorsi pubblici (l’ultimo è del 1999) o le più recenti SSIS, e non ancora entrati in ruolo, è di 230 mila (tanti sarebbero i “precari” inseriti nelle graduatorie a esaurimento che attendono l’immissione in ruolo); c) gli accessi alla abilitazione all’insegnamento saranno pressoché nulli fino a quando non verranno riassorbiti tutti i precari. È semplice: basta sottrarre al fabbisogno dichiarato il numero dei precari abilitati e il risultato è zero o qualche sparuta unità (ciò viene per di più affermato nonostante le norme –Testo Unico D.L.vo 297/94 c. 1 art. 270 – dicano con chiarezza che il reclutamento deve proseguire secondo il cosiddetto “doppio canale”: 50% dai titoli acquisiti – graduatorie – e 50% dai concorsi).

Ad aggravare la situazione contribuiscono poi i provvedimenti della riforma scolastica Gelmini e i tagli di Tremonti, il cui effetto combinato è, da una parte, l’innalzamento fino a 30-32 del numero minimo di studenti per classe, dall’altra, la riduzione del monte ore settimanale, con conseguente ulteriore perdita di posti per l’insegnamento.

La partenza del TFA transitorio, data per imminente (novembre di quest’anno), che dovrebbe fare da battistrada all’avvio dei nuovi percorsi formativi abilitanti (costituiti dai bienni specialistici + il TFA), rischia di tradursi in una tragica farsa senza attori. Essendo i numeri dei posti così vicini allo zero, le università non potranno certo predisporre corsi per due o tre studenti. Recenti affermazioni del Ministero paventano pertanto un TFA che non sarà nemmeno su base regionale, ma inter-regionale o addirittura nazionale (corsi e laboratori pedagogico-didattici si svolgeranno in una unica sede per tutta la Penisola).

La sostanza è che il tanto agognato TFA transitorio è chiuso con un enorme lucchetto per dieci anni.
Non solo coloro che frequentano o frequenteranno corsi di laurea (matematica, lettere, lingue, filosofia…) che hanno tra gli sbocchi naturali l’insegnamento non potranno accedere ai nuovi percorsi formativi in vista della abilitazione (dato il numero quasi nullo di posti disponibili, potranno venire aperti solo pochissimi corsi specifici per l’insegnamento); ma anche i neolaureati che, in questo periodo di vacanza normativa, sono entrati a tutti gli effetti nel mondo della scuola, attraverso supplenze annuali nelle scuole statali o contratti nelle scuole paritarie, non potranno accedere al TFA per conseguire l’abilitazione. La loro prospettiva è drasticamente troncata. Cambino mestiere. Questo è un Paese per vecchi.

3.
Sia chiaro, siamo perfettamente coscienti che la situazione di sovraffollamento di abilitati precari che si è venuta a creare in Italia ha qualcosa di anomalo, forse di mostruoso (anche se le liste delle graduatorie dovrebbero essere sottoposte a un esame più rigoroso e attento: verosimilmente una certa quota avrà ormai trovato altri impieghi, intrapreso altre carriere…). Non abbiamo niente da obbiettare sulle legittime aspettative della legione degli abilitati precari. Conveniamo sulla necessità di dare una decisa sterzata a tutto ciò, di mettere paletti, confini, soprattutto di ripensare seriamente il sistema di abilitazione e di reclutamento degli insegnanti (magari ispirandosi a modelli più riusciti, come quello tedesco, per fare un esempio).

Ma non possiamo condividere che il prezzo di questa stratificata e annosa situazione lo debbano pagare unicamente i giovani, cioè noi. È inaccettabile, per non dire folle, la decisione di bloccare di fatto le abilitazioni, cioè di salvaguardare unicamente i diritti acquisiti di chi è già “all’interno del sistema”, impedendo l’ingresso di nuove forze, di giovani motivati, preparati, desiderosi di costruire, disposti anche a tutti i sacrifici necessari in questo tempo di crisi. Questo significa uccidere il futuro, frustrare le aspirazioni di tanti studenti e di tanti laureati usciti dopo il 2007 dalle università (senza abilitazione, e non per loro colpa), mortificare la professione insegnante in generale e creare un buco generazionale nel corpo docente, con evidenti ricadute anche sulle nostre università, su tutti i corsi di laurea che hanno tra gli sbocchi naturali l’insegnamento. Tanto vale che i Presidi o i nuovi Direttori di Dipartimento avvisino debitamente gli studenti e i potenziali iscritti: «lasciate ogni speranza voi ch’entrate», se pensate di insegnare.

Per questo noi diciamo che la direzione intrapresa dal Ministero deve essere corretta. Meglio fermarsi in tempo. Bisogna ricominciare ad abilitare! E bisogna distribuire gli oneri. Il processo di riassorbimento degli abilitati precari non può essere realizzato a danno delle giovani generazioni. Niente patti di ferro del governo con una parte a scapito dell’altra, niente guerre tra generazioni o guerre tra poveri: occorre tenere aperta la possibilità per i giovani di abilitarsi.

4.
Che cosa si può fare? Anzitutto confermare quello che la legge già prevede: la distinzione della abilitazione dal reclutamento e dalla immissione in ruolo. Abilitarsi non significa necessariamente avere il ruolo, i due momenti sono e devono essere separati. Ciò consente di abilitare con margini più ampi, necessari ad una procedura che non si trovi improvvisamente senza aspiranti. Gli abilitati potrebbero poi entrare a far parte di “albi regionali” (senza alcuna formazione di graduatorie, rivelatesi a sufficienza rovinose), dai quali le scuole possano attingere direttamente i docenti tanto per le supplenze temporanee o annuali, quanto per le immissioni in ruolo con proprio concorso di istituto o di reti di istituto. Perché una simile prospettiva diventi possibile occorre evidentemente mettere mano a una vera e propria riforma del reclutamento dei docenti, che eviti gli automatismi del passato.

Se nel frattempo, per l’immediato, si dovesse o volesse ricorrere alla classica macchina dei concorsi ordinari, che prevedevano come requisito di ammissione la sola laurea (DM 39 del ’98), si rispetti almeno la norma che riserva il 50% dei posti ai vecchi abilitati inseriti nelle graduatorie e il 50% ai nuovi laureati.
Fermi la macchina, Ministro, ci ripensi!

CLDS (Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio)
Milano, 30 giugno 2011