mercoledì 23 marzo 2011

IO NON TOLGO IL DISTURBO (e neanche la Mastrocola)

Gli italiani sono divisi su tutto? C’è una cosa, invece, su cui sono tutti d’accordo: da destra a sinistra, sia laici che cattolici, giornali e tv. Si tratta delle sante parole racchiuse nel libro della Prof.ssa Paola MaStrocola Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare.
Dopo un accenno su Il Sole 24 ore, inizia il successo pubblico con un’intervista-doppia su L’Unità e Avvenire nello stesso giorno (il 17 febbraio), poi si scatena la raffica di tutti gli altri giornali: da  La Repubblica al pezzo di Giorgio Israel, auctoritas per Il Giornale, mentre il Corriere della Sera apre addirittura un dibattito (circa due pezzi) in cui interviene Cesare Segre; e  poi ancora Avvenire, La Stampa (Tuttolibri), Il Riformista, Il Foglio, Il Tempo, Il sussidiario.net e il free-press Metro. Chissà quanti altri avranno scritto su questa fortunatissima Prof. che è stata anche ospite, in prima serata su Rai Tre, da Fabio Fazio a Che Tempo che fa, nonostante la casa editrice si chiami solo Guanda.
Una risonanza a tutto tondo, dunque, per un libro che racconta in che condizioni è ridotta la scuola italiana di oggi e che cerca di ripercorrerne le tappe per spiegare come si è arrivati a questo punto e come bisogna uscirne. La risposta è sarcastica (Togliamo il disturbo), immaginando che a dirlo sia un Consiglio di classe nei confronti dei propri alunni ai quali si dà la libertà di scegliere se studiare o meno. La stessa risposta era stata data l’anno scorso dal libro Contro a letteratura (titolo altrettanto sarcastico) di Davide Rondoni, il quel propone tuttora di rendere facoltativo alle superiori (dopo averlo proposto bene precedentemente) un percorso di lettura, lasciando nel programma di storia alcuni elementi di storia della letteratura. Ancora prima Antonella Landi ha scritto il libro Tutta colpa dei genitori, per sottolineare che l’emergenza educativa sia una spiegazione di quella scolastica.
Recentissimi, poi, si sono levati su tutti i giornali i vari Inni alla scuola pubblica, anche da parte di gestori privati e della Chiesa, conseguentemente alle note affermazioni su tale argomento del Presidente del Consiglio. Tutti sono d’accordo, dunque, che bisogna ripartire dalla scuola, dalla cultura, dall’educazione per rimettere in moto l’Italia. Sì, tutti. Tranne uno.

Quello che i Vangeli non dicono di Giuseppe

L’ombra di Giuseppe negli apocrifi

In un suo romanzo, Jan Dobraczyński ricostruisce la figura dello sposo di Maria, che nei vangeli canonici è soltanto accennata. Così il padre putativo di Gesù si rivela essere ombra del Padre vero

di Olga Sanese pubblicato su L'Ottimista del 17 marzo 2011

Quando se la vedeva davanti così non riusciva a nascondere niente e si rammentava della sua decisione di lasciare che fosse lei a dirigere la loro vita (…) lo consolava il fatto che colei che egli amava non avesse timori e fosse così piena di fiducia (…) e lei riuscirà ad amare qualcuno che è soltanto un’ombra? Questi sono i più segreti pensieri del silenzioso Giuseppe sulla sposa Maria, secondo L’ombra del Padre del maggior romanziere cattolico del ‘900, Jan Dobraczyński.
Il romanzo di Giuseppe è un “apocrifo moderno”, ultima tappa di quel “genere letterario”, gli apocrifi appunto, che non rientrano nel Canone delle Scritture. Il “nuovo” apocrifo di Jan Dobraczyński è frutto sia di fonti scritturistiche, sia di antichissimi scritti come, per esempio, l’apocrifo Storia di Giuseppe il falegname, oltre che della fantasia dell’autore. Dobraczyński, infatti, ha scritto in prevalenza romanzi di argomento storico e biblico che letterariamente somigliano molto alle visioni della Sacra Famiglia registrate da alcune mistiche, tra le quali si ricorda Anna Katharina Emmerick. L’autore, con i suoi libri, fra i quali spicca La porta dei Cieli. Il romanzo della Madre di Dio, è stato quindi capace di rendere quotidiana e accessibile a tutti la sacralità, anche quella più alta.
Ne Il romanzo di Giuseppe egli si è cimentato nel ricostruire la storia del padre putativo di Gesù che vi compare come l’uomo credente, posto improvvisamente di fronte a un’imprevedibile chiamata di Dio. Incarnazione ideale del “resto” di Israele, lo sposo di Maria è combattuto lungo tutto il corso della sua vita fra le giuste esigenze umane e la richiesta improrogabile del Padre ed è proprio in questa tensione continua che egli matura la propria fede; ma è un cammino faticoso, percorso di situazioni straordinarie e sullo sfondo di un ambiente socio-politico-religioso complesso e ambivalente. Giuseppe vi emerge, dunque, come l’incarnazione del povero di Jahvé, ricco solo della fiducia nella sua promessa, che non si lascia irretire dalle tentazioni o dalle manovre oscure del potere. Le sue peculiarità sono, quindi, il silenzio, la preghiera, a volte i dubbi, ma soprattutto i sogni come accadeva al suo omonimo dell’Antico Testamento, l’ultimo dei dodici figli di Giacobbe. Il tutto immerso in una grande obbedienza e aspettativa: Lui avrebbe atteso di poter partecipare all’amore degli due, della madre e del Figlio.
Da sempre, infatti, la figura del padre differisce da quella della madre, per un maggior distacco. Così, nel romanzo di Dobraczyński, Giuseppe osserva il Figlio come da lontano: di nuovo guardava il bambino che faceva girare fra le piccolissime dita la capretta di legno”. E questo è facilmente spiegabile col fatto che i figli passano nove mesi dentro il grembo della madre che li sente “fisicamente” carne della propria carne. Tuttavia, a una separazione fisica tra padre e figlio, corrisponde un legame interiore così forte da permettere al genitore di sentire i bisogni del generato anche a distanza. Non bisogna dimenticare, però, che nel romanzo il Figlio di Maria è anche Dio; nonostante ciò la sposa di Giuseppe è capace di dire al marito queste dolci parole: “Lui (il Figlio) ha davvero bisogno di te, potrebbe fare tutto da solo eppure vuole la nostra partecipazione (…) Oh Giuseppe, ogni tua fatica e preoccupazione sono quelle del vero Padre”. La figura di Giuseppe, dunque, dimostra che ogni paternità è sempre adottiva, in quanto “ombra” del Padre vero che è nei Cieli. Al tempo stesso ciò non esime gli uomini dalle loro responsabilità né dalla loro libertà di essere padri.
Un augurio dunque a tutti i papà che quest’anno festeggiano a ridosso dei 150 anni dall’Unità di questa Italia che molti, non a caso, chiamano Patria.

domenica 20 marzo 2011

I sabati dello scriptorium: L’Italia è un desiderio - Il bene comune della poesia

di Olga Sanese su Il sussidiario.net del 10 marzo

Il 12 marzo è iniziato il ciclo di incontri organizzati dal giornalista, poeta e scrittore Davide Rondoni, in collaborazione con la cattedra di “Laboratorio di Scrittura e cultura nella comunicazione” della Facoltà di Scienze della Comunicazione de “La Sapienza” di Roma.
Si tratta di una rassegna culturale di poesia, arte e cultura, intesa come  scambio di opinioni sui testi portati allo scriptorium dai partecipanti (fatti da loro o da loro amati) al fine di scoprire i segreti di scritti eterni – e quindi sempre nuovi – e di ricostruire le tappe dei loro itinerari poetici. L’idea dei  I sabati dello scriptorium s’inquadra all’interno dei festeggiamenti dei 150 anni dall’Unità d’Italia, nella consapevolezza che la nostra nazione era “una di lingua”, cioè unita culturalmente, prima di diventarlo anche politicamente. Il sottotitolo dell’iniziativa L’Italia è un desiderio - Il bene comune della poesia viene spiegato da Rondoni così: L'Italia è un'aspirazione” - sosteneva uno dei miei maestri, l’amico Mario Luzi - ovvero l'Italia cessa di esistere nel momento in cui smettiamo di desiderarla perché crediamo di averla già fatta. Questo è un ideale, non solo di letterati e di poeti che furono i primi a darne voce, ma di tanti che sono semplicemente orgogliosi di esser conterranei di Dante e di Michelangelo. Perciò aiutare i giovani a rendersi conto di ciò e ad assaporare questo tesoro è un’esigenza primaria per il nostro futuro”.
Nella bibliografia de I Sabati compare anche l’ultimo libro di Davide Rondoni, Contro la letteratura(Il Saggiatore). Rondoni, infatti,  prima di Togliamo il disturbo – Saggio sulla libertà di non studiare di Paola Mastrocola, ha cercato di ripensare a fondo i modi di trasmissione del gusto del sapere attraverso la proposta di rendere facoltativo alle superiori (dopo averlo proposto bene precedentemente) un percorso di lettura, lasciando però nel programma di storia alcuni elementi di storia della letteratura.  “Occorrono insegnanti – dice Rondoni - che mettano a rischio la propria autorevolezza di fronte ai ragazzi, altrimenti la letteratura come obbligo e come impiego è destinata a fallire (più di quanto sia già il disastro) nelle scuole. Proprio per questo spero di poter sperimentare la mia proposta in un alcuni istituti scolastici”. Il compito degli insegnanti, dunque, è di “educare alla bellezza”, proprio come recitava la due giorni di poesia organizzata da Rondoni a Roma tempo fa.
Quest’anno, invece, I sabati dello scriptorium prevedono più date (2 aprile, 7 maggio, 28 maggio e 11 giugno) e avranno luogo presso l’Aula Oriana (Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale). Agli incontri interverranno Zingonia Zingone, Maria Grazia Calandrone, Mario Morcellini, Andrea Di Consoli, Aurelio Picca, Francesca Merloni, Daniele Mencarelli e Claudio Damiani, “tutti per condividere – ha affermato Rondoni - la forza bruciante e la vastità umana della esperienza della poesia, che è un elemento antropologico prima che un dato letterario e culturale”.

mercoledì 16 marzo 2011

La matematica non è un'opinone. E' una mostra (intervista a Raffaella Manara)

La matematica parte dall’UNO per spiegare l’IINFINITO

di Olga Sanese su l'Ottimista del 10 marzo

Hanno ancora tre giorni di tempo i giovani e gli adulti che vogliono cambiare la loro idea della matematica come “qualcosa che non fa per me”.
Cosa rende bello, invece, risolvere un problema di matematica? Questo è lo spunto per iniziare a seguire quel filo intrecciato di verità e di bellezza che percorre quella materia che da sempre è colonna portante dell’istruzione insieme all’italiano.
Sono tante le domande a cui la mostra cerca di dare risposta: che cosa muove la matematica nel corso della storia? Qual è il suo metodo nella ricerca del vero? Che rapporti ha con le scienze sperimentali? Perché l’infinito riemerge continuamente nel discorso matematico e che ruolo ha? Che cos’è la dimostrazione? C’è ancora qualcosa da scoprire oggi in matematica? L’astrazione è nemica del rapporto col reale o può essere uno strumento potente di comprensione della realtà?
 
L’Ottimista ha intervistato l’ideatrice della mostra, la dott.ssa Raffaella Manara.

Dott.ssa Manara, come mai la matematica si occupa dell'infinito affermando che questo serve a capire il reale?

Il rapporto della matematica con l’idea dell’infinito comincia da subito, dai primi concetti relativi ai numeri che si formano nella mente del bambino. Non appena egli afferra che la successione dei numeri naturali è generata dall’ “aggiungo uno”, concepisce l’idea che tale processo non abbia fine. L’idea di infinito è quindi qualcosa di intrinseco al pensiero matematico. Su tale questione il grande matematico Ennio De Giorgi diceva: “La matematica è in un certo senso costretta a immergere la realtà finita e visibile in un quadro infinito sempre più esteso.”

La matematica è piena di regole: come si relaziona allora il suo rigore con la bellezza di cui si parla nella mostra (“meravigliosi teoremi, eleganti dimostrazioni, formidabili applicazioni”)
 e come si fa a parlare di libertà in questo ambito?

E’ l’effetto di molta matematica che si impara a scuola, l’idea diffusa che essa sia un insieme di rigide regole di esecuzione di ferrei procedimenti. Invece, come ci testimoniano i matematici del presente e del passato, chi si dedica alla matematica fa esperienza di scoperta, di invenzione, talvolta di creazione, riconoscendo che immaginazione e fantasia sono necessarie.
Il rigore, poi, nasce dall’esigenza di certezza, dalla necessità di un criterio di verità; esso però è solo l’alveo in cui si indirizza la libertà del pensiero che origina la matematica. A questa, sin dall’origine, si accompagna la bellezza: è il caso di quando si colgono nella realtà alcune strutture di ordine e armonia (simmetrie e regolarità); quando il suo metodo sostanzia una conoscenza frutto di esplorazione e conquista (comprendere  la matematica è anche una sfida appassionante), e infine nelle sue conquiste per cui teoremi, teorie e applicazioni stupiscono sempre più, quanto più ci si inoltra in essa.

La matematica è spesso vista come qualcosa di astratto. Come si coniuga questo con il suo rapporto con la realtà?

Senza astrarre non possiamo conoscere razionalmente il reale perché le azioni, pur indispensabili, di vedere e toccare, non bastano a conoscere significato e senso di ciò che incontriamo. Il matematico è capace di una osservazione intera, appassionata, insistente sulla realtà, che non è lo stessa di quella delle scienze sperimentali. Egli necessariamente trasforma il semplice  “vedere” nel “vedere con gli occhi della mente”, e se questo è l’astrazione, non può che essere amica del reale. Citando ancora Ennio De Giorgi: “La matematica è una delle manifestazioni più significative  dell’amore per la sapienza. Come tale è caratterizzata, da un lato, da una grande libertà, dall’altro dall’intuizione che il mondo è fatto di cose visibili e invisibili e la matematica ha forse una capacità, unica fra le altre scienze, di passare dall’osservazione delle cose visibili all’immaginazione delle cose invisibili.”. Il tutto con i dovuti limiti.

Ma la cosa più esaltante è come è nata l’idea della mostra. “Sono stati i ragazzi stessi a chiedere a me e al Prof. Scopetti di realizzare questa iniziativa che avevano visto al Meeting di Rimini di quest’estate – dice il Prof. Regoliosi – e noi Prof. siamo stati trascinati da loro in questa mostra.” Dunque, concetto di “uno”, di “limite”, di “infinito”… con questo linguaggio, più che il “cuore della matematica”, sembra che la mostra voglia indagare il cuore dell’uomo. Il suo successo, dunque, non poteva che essere “matematico”.

martedì 15 marzo 2011

Che "disgusto" i manifesti della CGIL sulle morti bianche

La pubblicità della CGIL contro le morti sul lavoro è davvero di cattivo gusto.
“Non di solo pane” s’intitola, parafrasando il Vangelo.
E poi rappresenta i morti con immagini di rosette, filoni, baguette e quant’altro si venda in un forno.
Se si osserva attentamente il manifesto, poi, si può notare che al nome di un operaio straniero è associato l'immagine del "pane arabo".
Ma si può?
Poveri lavoratori, presi in giro anche dopo essere morti sul lavoro... perchè di precarietà vivevano.

venerdì 11 marzo 2011

Le audizioni made in CNEL su Csr e welfare sussidiario

di Olga Sanese pubblicato sul settimanale VITA-non profit il 25/2/2011

Dal primo luglio il Comitato “Osservatorio sull'economia sociale” del CNEL, coordinato dal Consiglier Gian Paolo Gualaccini, ha dato inizio al monitoraggio delle più importanti aziende italiane circa la “Responsabilità sociale d' impresa” (CSR) e il “welfare fai da te”. A fare da sfondo a questi incontri è Villa borghese che ospita nel cuore di Roma Villa Lubin, sede del Consiglio Nazionale Economia e Lavoro. 
Le prima aziende ad essere state udite (luglio 2010) furono la Nestlé, che raccontò del “Progetto 90 giorni” (strutture per accogliere e intrattenere i bambini dai 3 ai 14 anni durante i periodi in cui non sono a scuola e i genitori lavorano) e la Sanofi-Aventis, che illustrò il piano-case costruite per i propri dipendenti terremotati dell' Abruzzo.  In autunno, poi, è stato il turno di importantissime imprese come Barilla, Enel, Fiat spa e Takeda Italia.
Ma non finisce. Ad aprire il nuovo anno, il 25 gennaio u.s., è stata la Coca-Cola hbc Italia che ha illustrato - con materiali cartacei e digitali - le quattro fondamentali aree di responsabilità sociale che permettono all’azienda di pensare all’eco-efficienza come valore: la responsabilità ambientale (attraverso il riciclo, la riduzione degli imballaggi, il risparmio idrico, la riduzione dei consumi e delle emissioni, la ricerca di fonti alternative e la cogenerazione elettrica); l’incentivazione di un rapporto costante, aperto e costruttivo con le comunità locali (grazie alle strutture di ricerca, alle iniziative messe su per l’emergenza terremoto, ai corsi di educazione ambientale e al sostegno alle Onlus); il consolidamento di un approccio etico al mercato, al fine di creare un ambiente attento alle esigenze delle persone. Il quarto punto, assai degno di nota, è la valorizzazione del personale che rientra nel cosiddetto “welfare fai da te”, come insegna l’esempio storico di Luxottica. La Coca – Coca, infatti, organizza corsi di formazione per i propri dipendenti sulla tutela ambientale, sulla sicurezza e sulla qualità del lavoro, fornendo loro strumenti informativi - come un apposito canale tv e delle riviste specializzate - nella consapevolezza che una corretta informazione può contribuire adeguatamente al business dell’impresa; inoltre l’azienda permette una partecipazione attiva dei dipendenti in tutti i progetti di CSR, da quelli di eco-sostenibilità alla charity svolta presso le Onlus. Infine, organizza   un summer camp gratuito per i figli dei dipendenti.

Il 17 febbraio è stato il turno di 3 M che ha relazionato sia sulla sostenibilità dell’impresa attuata grazie alla riduzione dei rifiuti e alle energie rinnovabili, sia sull’attenzione posta nei confronti dei propri dipendenti e anche dei loro familiari. Infatti chi lavora in MMM ha diritto al rimborso di spese mediche, a un’assicurazione sanitaria e, su richiesta, a sedute di counseling psicologico; il dipendente, poi, può acquistare azioni della sua azienda a tasso zero, avere un fondo pensione, ricevere un prestito per comprare un auto o una casa e, grazie alla tessera “3M club”, avere sconti su ristorazione, trasporti, libri e viaggi. Inoltre all’interno dell’azienda ha a disposizione il “3M store” (lo spaccio aziendale), la lavanderia, la possibilità di fare la spesa on-line, di guardare film in lingua originale, di riscattare il proprio pc portatile, di prendere un auto aziendale (anche ibrida) o di avere, oltre al parcheggio, un servizio di car pooling e navette aziendali. Alcune di queste pratiche virtuose di welfare sussidiario sono valide anche per la famiglia: basti pensare alle spese sanitarie, al costo d’iscrizione di un figlio al nido o alle borse di studio per i più grandi, oltre ai contributi che i dipendenti ricevono se hanno anziani in casa. A tutto ciò, bisogna aggiungere i benefits che la “Fondazione 3M”, ente volutamente separato dal business aziendale per sottolineare l’alta finalità, fornisce al territorio e alla  comunità come le giornate dedicate alla sicurezza stradale o all’arte e alla cultura.
Insomma, dare welfare al dipendente si dimostra utile all’azienda: permette di ricevere fedeltà alla sua mission e di investire soprattutto su quei talent young che, opportunamente intercettati e valorizzati, permettono all’impresa di continuare ad accrescere il proprio business.

mercoledì 9 marzo 2011

E tu che tipo di donna sei? Scoprilo con il test di Semonide del VII secolo a.C.

di Olga Sanese su L'Ottimista del 3/3/2011


“L’indole della donna Dio la fece diversa.
Una deriva dalla scrofa setosa; la sua casa è una lordura. Un’altra la fece dalla volpe: è quella che sa tutto. Come sua madre è quella che deriva dalla cagna: curiosa di sentire e di sapere. Una la fece di terra e la diede all’uomo: non ha idea né di bene né di male. Una cosa la sa: mangiare. Viene dal mare un’altra, e ha due nature opposte: un giorno ride, tutta allegra, un altro giorno non la sopporti neppure a vederla, come il mare che sta sovente calmo, e sovente s’agita e s’infuria. Una viene dall’asina, paziente alle botte. Nasce dalla cavalla raffinata un’altra: schiva la fatica, si lava tutto il giorno due, tre volte, si trucca, si profuma, è sempre pettinatissima: una simile donna è uno spettacolo bello per gli altri, per lo sposo un guaio. A meno che non sia principe
”.
Già sette secoli prima di Cristo, l’uomo aveva capito bene con chi aveva a che fare. Il “Biasimo delle donne”, scritto dal poeta greco Semonide, descrive benissimo tutti i tipi umani che le donne - quelle di ieri come quelle di oggi - possono incarnare. Ma, per fortuna, il suo non è un catalogo di soli difetti e ci pensa l’ultima strofa a ricompensare quelle che se lo meritano: “c’è quella che viene dall’ape: fortunato chi se la prende. E’ immune da censure lei sola, è fonte di prosperità, invecchia col marito in un amore mutuo; è madre di figli illustri e belli. E si distingue fra tutte le donne, circonfusa di un fascino divino. Ecco qui le più sagge, le migliori”.
Quest’ultima, la donna-ape, rispecchia appieno le doti della donna vagheggiata da moltissimi poeti nel corso della storia e raggiunge il suo massimo splendore nella Beatrice dantesca. Il fascino divino di cui parla Semonide, infatti, è la caratteristica peculiare della donna vista dal poeta come tramite tra cielo e terra, tra l‘umano e il divino.
E questo filone letterario arriva fino ai nostri tempi. Infatti, lo stesso Eugenio Montale scriveva: “Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio / non già perché con quattr'occhi forse si vede di più”. In questi versi novecenteschi la moglie del poeta è descritta con una vista speciale, tipica del genio femminile; essa consiste in quella capacità straordinaria che hanno le donne di penetrare il vero senso delle cose che si cela al di là delle apparenze. Secondo Montale, infatti, resta deluso “chi crede / che la realtà sia quella che si vede”.
E oggi qual è la situazione in cui noi viviamo?
A quale categoria di Semonide apparterrebbero le donne dell’onda rosa scese in piazza con il motto “Se non ora quando”? E a chi somigliano quelle riunite in Piazza S. Pietro qualche domenica prima in occasione della “Giornata per la vita”? Tutte queste donne hanno riempito grandi piazze, pur avendo concezioni della vita diverse; l’8 marzo, invece, ricorda a tutte che anche un’altra piazza è possibile ed è quella di chi crede che la loro vita sia così preziosa per l’uomo da avvicinarlo a Dio, aprendogli in questa vita la strada che porta all’eternità, come hanno cantato i poeti di tutti i tempi.
Possa questa festa, dunque, unirci tutte, nella consapevolezza di essere persone prima che donne.

giovedì 3 marzo 2011

La contagiosa moda DESIGUAL

di Olga Sanese su L'Ottimista del 24 febbraio

Da circa un anno questa marca made in Spain sta travolgendo la moda italiana: un fenomeno  paragonabile a ciò che è stato Facebook per internet

C’è un gigante stendi-panni aereo nel negozio Desigual di Madrid; dal cielo del centro commerciale pendono sulle nostre teste vestiti coloratissimi come fossero tanti arcobaleni. A questo punto basta solo scegliere se prendere il capo sobrio a tinta unica (e ci si accorgerà che anche l’abito più classico nasconde una sua carta segreta) o un più tipico vestito “disuguale”,  ineguagliabile per le forme particolari, gli strani accostamenti dei colori, i colpi di luce e l’effetto visivo globale. Tocca solo decidere una tonalità per lo sfondo e, poi, ci pensa il marchio spagnolo alle morbide sfumature.
I vestiti Desigual, infatti, sono capaci di trasformare i passanti in macchie di colore paragonabili a quelle presenti nei più bei quadri dipinti da Gauguin; se si guardano da vicino, gli abiti presentano volti indiani, nepalesi o indonesiani, immersi in tinte calde e piene di luce, così come apparivano nelle tele del famoso pittore dell’Ottocento.
Ma chi è il genio che sta rivoluzionando la nostra moda? È un giovane ragazzo di 20 anni, Thomas Meyer, di origine svizzera, che ha creato questo marchio a Barcellona. Un vero talento come lo è stato l’inventore di Facebook Mark Zuckerberg, di pochi anni più grande. E infatti il successo di Desigual va di pari passo con la sua visibilità sul più famoso social network poichè la sua diffusione dipende anche dal grandissimo impatto che ha in rete. Su Facebook infatti, è possibile “vestire” virtualmente Desigual, guardando le nuove collezioni, commentando le foto di chi indossa quei vestiti, venendo a conoscenza di dove e quando si svolgono presentazioni ed eventi organizzati dal marchio spagnolo, condividendo abbinamenti e accessori. Insomma si potrebbe dire che Desigual è una moda anche mediatica.
Poi con i vestiti “disuguali” ognuno è diverso dall’altro: uno dei cavalli di battaglia di questa marca, infatti, è creare modelli sempre differenti gli uni dagli altri, per cui è quasi impossibile trovare una persona con la nostra stessa maglietta.
A questo punto una domanda sorge spontanea: ma perché le persone – e in particolare le ragazzine che vestono Desigual – sentono il bisogno di essere tanto diverse dagli altri? Sicuramente indossare abiti molto colorati aiuta ad apparire, ma essere diversi dagli altri, attraverso i vestiti, è anche un modo un po’ pirandelliano per recitare varie “parti” di quella commedia/tragedia che è la nostra vita. Abiti “disuguali” aiutano molto ad esprimere quelle “personalità infinite e mutevoli”  di cui parla proprio Pirandello, pensando erroneamente che l’abito possa mascherare o esonerare dalla responsabilità delle nostre azioni. È sicuramente bello cambiare look ma bisogna stare attenti ad evitare che la moda diventi una fissazione tale per cui, finendo in file interminabili verso gli outlet, dedichiamo meno tempo alle cose essenziali: dal fare i compiti al tenere vivi i rapporti con familiari e gli amici.
Perché dunque ostinarsi a essere diversi attraverso i vestiti? Spesso, cercando di essere alternativi a tutti i costi finiamo per assomigliare molto più a tutti che a noi stessi; in realtà la nostra originalità deriva da quel “codice” che chi ci ha creati ha iscritto nel nostro cuore e che ci rende “unici”.
L’invito è dunque quello di essere “disuguali” non solo esteriormente ma anche con le nostre azioni e con le nostre parole per poter riscoprire la nostra peculiarità interiore. Questo sì che è il vero anticonformismo che non passa mai di moda.